Marco Bersani
Sino a prima dell'avvento
del modello neoliberale, in parte come frutto del confronto da “Guerra
Fredda” fra Occidente e “blocco sovietico” che ha attraversato tutto il
dopoguerra del secolo scorso, il modello capitalistico poteva vantare la
democrazia, per quanto rappresentativa e formale, come propria caratteristica
intrinseca.
Di fronte al
fortissimo richiamo ai valori di uguaglianza che proveniva dai sistemi del
cosiddetto “socialismo reale”, l'Occidente, sottolineando l'illiberalità di
quei regimi, decantava la democrazia, che, pur non garantendo molti atri
diritti, tutelava la libertà di decidere i propri rappresentanti.
Con la rovinosa caduta del Muro di Berlino e l'affermarsi della dottrina
liberista, il binomio capitalismo-democrazia si è progressivamente scomposto e
la democrazia, anche quella rappresentativa e formale, è divenuta un ostacolo
da erodere.
In realtà, se si
osserva attentamene la storia, si scoprirà come l'atto di nascita del modello
neoliberale sia stato accompagnato non dalla democrazia, ma dal suo contrario.
“Solo uno shock trasforma il socialmente impossibile in politicamente inevitabile”.
Con questo aforisma, il padre del neoliberismo Milton Friedman, salutò il colpo
di stato militare in Cile, attuato dal generale Augusto Pinochet l’11 settembre
1973 per rovesciare il governo socialista di Salvador Allende, democraticamente
eletto tre anni prima.
Dei fatti di
quegli anni, dal punto di vista della violazione dei diritti umani, conosciamo
quasi tutto; ciò che è meno noto è che quel golpe fu la premessa (lo shock,
appunto) per la prima sperimentazione sul campo delle teorie economiche
liberiste della scuola di Chicago, di cui Friedman era il massimo esponente.
Perché risaliamo
a quei fatti per spiegare l’oggi? Perché quella storia “parla” al nostro
presente. Oggi nel pieno della crisi economico-finanziaria globale, che ha
investito direttamente il continente europeo, il proliferare di poteri
“tecnici”, con l’obiettivo della piena applicazione delle politiche monetariste
volute dalle grandi lobby del capitale finanziario, è palpabile in tutte le
scelte imposte ai popoli europei, evidenziando la necessità di una riflessione
molto profonda sulla relazione tra politiche liberiste e democrazia, nesso
sinora dato per scontato ed immodificabile: in questo senso, sarà utile tenere
a mente come l’atto di nascita delle teorie economiche liberiste sia avvenuto
esattamente attraverso la feroce distruzione della democrazia, elemento che
depone molto più a favore di una relazione di contingenza, piuttosto che di consustanzialità
fra le stesse.
D'altronde, di
paradossi come questo è piena la storia: i banchieri creditori furono i primi a
salutare la nascita della democrazia parlamentare nei Paesi Bassi, durante il
Rinascimento, e in Gran Bretagna, dopo la rivoluzione del 1688, perché,
contrariamente alle epoche precedenti, nelle quali i debiti erano appannaggio
di principi e sovrani e divenivano inesigibili con la loro morte, il fatto che
i parlamenti potessero contrarre debiti pubblici per conto dello Stato, rendeva
perennemente esigibili gli accordi e i contratti stipulati.
Come scrisse
Richard Eherenberg, storico del Rinascimento:
“Chiunque forniva crediti a un principe sapeva che il rimborso del debito dipendeva solo dalla capacità e dalla volontà del debitore di pagare. Il caso era molto diverso per le città, che avevano potere quanto i nobili, ma anche per le corporazioni, per le associazioni di individui uniti da interessi comuni. Secondo una norma generalmente accettata, ogni singolo cittadino era responsabile per i debiti della città, sia con l'esposizione della sua persona che delle sue proprietà”.
Naturalmente, la
finanza si conforma alla democrazia per poi premere per un sistema oligarchico.
“Not
with tanks, but with banks”. Ciò che in Cile fu reso possibile dai
carri armati, oggi viene realizzato attraverso la finanziarizzazione e la
trappola “shock” del debito.
Poiché l'enorme
massa di denaro accumulata sui mercati finanziari in questi anni ha stringente
necessità di essere reinvestita, e i terreni di valorizzazione possibili sono
quelli relativi alla deregolamentazione del lavoro, alla dismissione del
patrimonio, alla privatizzazione dei servizi pubblici, ciò che le lobby
finanziarie si propongono è un processo di espropriazione totale di diritti e
beni comuni, che poco si può accompagnare con il mantenimento di modelli di
decisionalità basati sulla democrazia.
"I sistemi politici dei paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l'integrazione. C'è forte influenza delle idee socialiste",
così argomentava nel
giugno 2013 la banca d'affari JP Morgan.
L'attacco alla
democrazia è particolarmente evidente con i trattati di libero commercio (TTIP,
CETA), attraverso i quali si tenta il passaggio definitivo dallo stato di
diritto a quello di mercato, permettendo alle grandi multinazionali di non
rispondere -impugnandole davanti a una corte arbitrale internazionale- alle
leggi promulgate dai parlamenti nazionali.
Ma è altrettanto chiara nella progressiva erosione degli spazi democratici,
tanto a livello locale, con sindaci che, da garanti dei diritti di
una comunità, ne diventano gli sceriffi addetti al controllo sociale delle
fasce di popolazione “indecorose”, quanto a livello nazionale, con l'accentramento
dei poteri sui governi, invece che sulle assemblee elettive (era questo il
disegno “costituzionale” di Renzi, seppellito da una valanga di “NO”), ed europeo,
con il commissariamento di fatto di ogni scelta di politica economica e
sociale, attraverso i vincoli finanziari di Maastricht e del Fiscal Compact.
Tutto ciò produce un paradossale circolo vizioso: più la democrazia viene
erosa, più aumenta la separatezza tra politica istituzionale e società,
producendo una forte disaffezione sociale verso la “casta”, più quest'ultima
può continuare a perseguire la strada dell'oligarchia al servizio dei grandi
interessi finanziari.
Per questo, oggi
ogni lotta per la riappropriazione sociale deve porsi il doppio obiettivo della
“socializzazione della politica” e della “politicizzazione della
società”, ovvero porre con forza, da una parte, la riappropriazione di ogni
spazio di democrazia diretta e dal basso e dall'altra, premere per un salto
culturale e di qualità delle lotte dei movimenti sociali, che devono inserire,
nelle proprie rivendicazioni “specifiche”, gli aspetti sistemici contro
l'economia del debito e per una nuova democrazia reale.
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