uno dei due è l'altro

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sabato 1 aprile 2017

Rolling Stones in Exile. Foto di famiglia di Dominique Tarlé.


Malanni di gioventù che non passano più! I Rolling Stones, il Rock e la sua industria, gli anni sessanta/settanta  e il giovanilismo imperante... un tuffo nelle sterminate emozioni e nelle ineffabili contraddizioni 
della nostra adolescenza.








Questa intervista è nata da una chiacchierata tra Dominique Tarlé, Enrico Ratto ed Elisa Chisana Hoshi alla Galerie de l’Instant, Parigi, nel marzo 2014.

***

Dominique Tarlé, lei ha trascorso sei mesi a Villa Nellcôte, nel sud della Francia, nel periodo in cui i Rolling Stones registravano Exile on Main Street. Qui ha scattato uno dei classici di quel momento irripetibile. Quale è la storia di questa fotografia?

Bene, una mattina Anita Pallenberg mi chiede di accompagnare Keith Richards, Keef, all’aeroporto di Nizza per prendere un collega, Eric Clapton. Quando torniamo alla Nellcôte, Eric Clapton ha con sé sette chitarre e ne regala una a Keef. E’ una chitarra appartenuta a Muddy Waters, l’autore di Rollin’ Stone Blues, un pezzo che Keef ascoltava sempre da giovane.
Il clima è quindi sereno. A Villa Nellcôte è estate, il tempo è sempre bello, Keef ha invitato alcuni amici inglesi con i loro figli, in modo che suo figlio non fosse solo. La casa è piena di bambini, saranno stati una mezza dozzina. Questo è l’ambiente in cui è stata scattata quella fotografia.

L’interpretazione che ne è stata data è molto diversa.

Si dice che questa fotografia rappresenti la decadenza della vita a Villa Nellcôte. In realtà rappresenta un momento di grande serenità. Keef ha alla destra la sua compagna Anita Pallenberg, tra le braccia la sua nuova chitarra, e alla sinistra i suoi amici. La vera storia non ha nulla a che fare con la decadenza, è un momento molto bello.




Anche questo fa parte dell’immaginario dei Rolling Stones.

Io dico che i Rolling Stones sono il ricettacolo per i fantasmi delle persone. Hanno sempre utilizzato l’immaginario nato intorno alla loro storia. Se avessero fatto un decimo di ciò che la gente immagina, oggi non sarebbero ancora qui a tenere concerti allo Stade de France.
Ma su una fotografia, la gente lascia libero corso alla propria immaginazione ed è questo che mi interessa. La gente si appassiona alle stampe fotografiche dove non c’è rilievo, non c’è profondità né terza dimensione come al cinema, perché solo questo libera l’immaginazione. Il vuoto permette la libertà, l’immaginazione, la creazione.


Come tutela oggi il suo archivio di fotografie di Exile?

A Parigi lavoro in esclusiva con Julia Gragnon e la sua galleria, la Galerie de l’Instant. Ho un agente in Inghilterra. Con Julia abbiamo realizzato una mostra a due con Ethan Russell, il quale ha scattato le fotografie dei Rolling Stones nel 1972, durante la tournée di Exile on Main Street.
Con l’archivio di Exile ho poi fatto un’esposizione personale e una collettiva in Inghilterra con altri venti fotografi, ognuno dei quale ha esposto cinque o sei foto. A Londra ho esposto queste foto in sei mostre.




Lavora con gallerie consacrate al rock?

No, non lavoro con le gallerie esclusivamente rock, come la Morrison Hotel Gallery di New York. Rifiuto. Le foto che mi interessano sono quelle degli altri fotografi, le mie le conosco. Amo lavorare con la Galerie de l’Instant perché qui posso entrare in relazione con fotografi come Paolo Pellegrin o Sebastião Salgado, che fa lavori stupefacenti, completamente surrealisti. Mi confronto con fotografi che si sono interessati ad ambiti molto diversi, a situazioni differenti.
Ritrovo tutto questo anche nei laboratori di stampa. Il laboratorio è un luogo dove non trascorro mai meno di una mezza giornata, gli stampatori mi fanno scoprire il lavoro degli altri fotografi, e tutto questo mi appassiona.

Questo rigore limita il suo mercato?


Ho entrambi i piedi sul freno e so di vendere molte meno foto di quanto potrei. Ci sono fotografie che non potrò più esporre quando saranno esaurite. Ho 66 anni, le foto degli Stones nel sud della Francia rappresentano il dieci per cento del mio archivio. Dagli anni 2000 in poi non ho più avuto il tempo per seguire altri progetti. Per ogni mostra curo gli incontri, le stampe, le spedizioni… tutto questo mi impegna ore ed ore.

Preferisce la vita delle gallerie ai progetti editoriali?

Nel progetto di un libro c’è l’editore, l’autore e il pubblico che lo acquista. Ma il fotografo, raramente incontra il pubblico. Vengo qui in galleria tutti i sabati pomeriggio e incontro le persone, è la mia passeggiata del sabato.





Nel suo lavoro editoriale è rigoroso quanto nei rapporti con le gallerie?


Quando si lavora su un libro, occorre costruire una storia. Per Exile, all’inizio l’editore mi ha contattato e mi ha chiesto le foto, le didascalie e i testi. Ho rifiutato, era il modo più rapido per realizzare il lavoro. Ho detto che avrei accettato di pubblicare il libro solo se le foto fossero servite a riunire tutti i sopravvissuti di quell’epoca. Allora ho dato all’editore alcune scatole di foto 20×14 e gli ho chiesto di mostrarle ad ogni persona, viva, fotografata. Ho pensato che queste persone avrebbero trovato i loro ricordi, ognuna avrebbe avuto qualcosa da raccontare. Questa è la mia visione 3D della fotografia, dove una foto vista da tre persone diverse assume tre storie completamente differenti.



 Lei e l’editore avete davvero interpellato ogni singola persona fotografata?

Sì. L’editore conosceva molto bene George Harrison ed Eric Clapton, aveva già fatto dei libri sugli Stones. Ma mi ha detto “è impossibile che queste persone raccontino le loro storie, vedrai, è tutto troppo freak, ci sono feste, droga…”. Gli ho detto “senti, non mi costa niente entrare in contatto con questa gente e avere una loro risposta. Non farò il libro che tu mi chiedi, farò il mio libro”. L’editore ha sentito questo stimolo, ha contattato tutte le persone e tutte hanno detto sì.






E quanto i magazine le chiedono una sua foto?


Ho sempre rifiutato. Le mie foto dormono bene nella carta 30×50. Ho iniziato negli anni ’60 a presentare i miei lavori e la stampa mi ha chiesto unicamente di illustrare articoli che facessero scandalo. Mi sono detto: la mia macchina fotografica mi ha fatto aprire le porte di mondo in cui ho incontrato persone straordinarie, adorabili, e adesso le foto nate da questi incontri non mi fanno incontrare che degli stupidi, ma non posso passare la mia vita ad incontrare degli imbecilli.


Le fotografie dei Rolling Stones erano spesso funzionali a creare immaginario e scandalo, le sue no, ma reggono nel tempo.


Ci sono fotografi, soprattutto con i Rolling Stones, che vanno a cercare lo scandalo nella fotografia, per esempio i paparazzi. Conosco alcuni paparazzi e mi fa ridere il loro lavoro, vanno a scontornare la realtà dalla fotografia per dire altre cose.
Ogni fotografo ha uno sguardo personale e un’attitudine al lavoro differente. Questo è ciò che fa la ricchezza della fotografia. Ci sono fotografi creativi, altri sono estremamente diretti, altri vogliono organizzare le luci, le decorazioni, scegliere i vestiti e la location. Io sono totalmente incapace di lavorare così. Con i Rolling Stones non c’era bisogno di dire nulla, di costruire nulla. Le mie sono state foto di famiglia.





Lei, qui a Parigi, conosceva bene i Rolling Stones prima di andare con loro nel sud della Francia?

Sono nato nel 1948, questo significa che quando avevo 12 o 13 anni in Francia non c’era alcun giornale per adolescenti, C’era un solo canale televisivo in bianco e nero e naturalmente nessun programma per i ragazzi della mia età. A Parigi, i soli che vendevano i dischi erano i negozi di elettrodomestici, tra le cucine, le radio e i frigoriferi. Io facevo a piedi il giro di Parigi per trovare i dischi.

C’erano gli Ye-ye?

Che catastrofe. Gli adulti non avevano previsto che i ragazzi nati prima della guerra avrebbero avuto il desiderio di qualche cosa che li rassomigliasse e li appartenesse.




Un vuoto.

La possibilità che abbiamo avuto nasce dal vuoto per gli adolescenti. Io sono un adoratore del vuoto, perché il vuoto è uno spazio di libertà e creatività, se non ci fosse stato il vuoto non avremmo avuto i Rolling Stones, i Beatles, Jimi Hendrix, gli Animals, Eric Clapton… la base di tutto è il vuoto per la cultura degli adolescenti.
Ma questo succedeva non solo in Francia. Mi interessava il fatto che un gruppo di inglesi decidesse di costruire una carriera artistica musicale su una musica che non aveva alcun potenziale commerciale, il blues. Inoltre, quando i Rolling Stones hanno fatto la loro prima tournée negli Stati Uniti, hanno fatto conoscere agli americani bianchi la cultura afroamericana del loro Paese.


E’ il mélange culturale.

Una cosa a cui sono sempre affezionato, scoprire le altre culture. Da quando sono nato, vivo circondato da francesi razzisti. Ma nel mio quartiere ci sono africani, cinesi, arabi, ebrei. Gli africani lavorano per i cinesi, i musulmani fanno la loro spesa nei negozi ebrei, gli ebrei fanno la spesa nei negozi dei musulmani, e mai un problema. E’ la politica che ci ha imposto i problemi.






E’ questo che avevano capito i Rolling Stones?


I Rolling Stones si sono interessati alle altre culture e questo ha giocato un ruolo fondamentale sulla loro storia. La carriera dei Beatles è durati 7 anni, i Rolling Stones sono ancora qui da 50 anni. Abbiamo un grande bisogno di meticciaggio, è nostro il kit di sopravvivenza. Ed oggi sono 50 anni che un gruppo di piccoli bianchi ha capito 
tutto questo.

Pensa che i Rolling Stones siano sempre stati vicini al loro pubblico?

C’è un fenomeno molto importante che viviamo ancora oggi. E’ l’incontro di un artista con il suo pubblico. Puoi essere il più geniale artista del mondo, se non incontri il tuo pubblico, non esisti. Quando i Rolling Stones sono arrivati in Francia, noi eravamo un piccolo gruppo di giovani che ha deciso che queste persone avrebbero scritto la colonna sonora della nostra esistenza.
I
Rolling Stones si sono trovati in situazioni difficili e ciò che li ha salvati era che il pubblico fosse là, per comprare i loro album, ma soprattutto, per andare ai loro concerti.
Sul piano individuale, i
Rolling Stones avevano dei problemi giganteschi, ma quando Mick, Charlie, Keef e tutti gli altri si rimettevano in marcia, lasciavano i problemi alle spalle, entravano nello studio di registrazione, salivano sul palco, e qui era tutta un’altra cosa. Questo è qualcosa di fantastico.

La copertina di Exile on Main Street è stata affidata a Robert Frank, che ha sempre fotografato le diverse culture americane…

Sì, il direttore artistico dei Rolling Stones è Charlie Watts, gli altri convalidano le scelte di Charlie. Quando hanno terminato le registrazioni di Exile on Main Street, Mick Jagger ha chiesto a Charlie chi potesse realizzare le fotografie del disco. Charlie è andato a visitare alcune librerie specializzate, ha portato una serie di libri a Mick e ha detto che Robert Frank era molto conosciuto negli Stati Uniti. Ci sono fan che mi chiedono perché non ho realizzato io quella copertina. Ma io ho scattato quelle foto per altri motivi.




Probabilmente, lei a Villa Nellcôte ha fotografato le persone, non i Rolling Stones…


Sono rimasto sei mesi nella casa di Keef e ho scattato foto senza mai svilupparle perché non c’era nessun laboratorio di cui avessi fiducia nel sud della Francia. Quindi, quando in ottobre sono rientrato a Parigi, ho fatto sviluppare tutto il lavoro e poi sono sceso di nuovo a Villa Nellcote con una scatola in cui c’erano tutti i negativi, le diaposite, i provini a contatto e le ho mostrate a tutto il gruppo, erano le loro foto di famiglia. Sono arrivato nel sud della Francia con due macchine fotografiche e uno spazzolino da denti, per sei mesi sono stato ospitato, ho mangiato con loro, dopo una settimana Keef mi dice “ma tu hai tutti i giorni la stessa maglietta?”, così ha aperto il suo guardaroba e mi ha vestito.

Avevate la stessa taglia?

Erano 10 anni che facevo foto e non mangiavo niente.

AnnieLeiboviz, invece, negli stessi anni ha seguito la tournée americana dei musicisti, non degli individui.

E’ entrata nella loro vita professionale, non in quella quotidiana, ma non era quello l’aspetto che le interessava, o magari erano gli Stones che non volevano condividere la loro intimità con lei. Che io sappia, le uniche fotografie che sono entrate molto dentro la vita privata dei Rolling Stones sono quelle di Ethan Russell.





E’ più tornato a Villa Nellcôte?

Sì, negli anni 80. Ma per me, Villa Nellcôte è stata come la stazione Mir nello spazio, isolata dal resto del mondo. C’era il mare e, tra la villa e ferrovia, c’era una specie di giungla perché uno dei proprietari della villa era un armatore appassionato di piante tropicali che chiedeva a tutti i capitani e gli ufficiali che navigavano di portargli delle piante da ogni parte del mondo. Quando la villa non è stata più abitata ma solo affittata per l’estate, e non c’erano più i giardinieri ad occuparsi del giardino, è diventata un giungla. Nel sud della Francia tutto spinge, è incredibile, tutto si allarga.


 Come sceglie un progetto?

Da quando ho cominciato a fotografare, all’età di 16 anni, ho lo stesso metodo di lavoro: scelgo l’artista per ragioni musicali e umane. Dopo aver scattato le foto, seleziono le migliori, le stampo e incontro di nuovo l’artista per mostrargliele, perché le validi. La mia collaborazione non avviene con il manager, con l’agente, con la casa discografica, ma esclusivamente con l’artista. Così avvengono questi miracoli.

Una situazione come quella di Exile on Main Street non si è mai più creata.

E’ stata unica. Esattamente come l’avventura del libro Exile è stata unica. Sono nato in un sistema dove ogni giorno ti sottopongono prodotti, i meno cari possibili, dove c’è una forte concorrenza e contano i volumi di vendita. Io sono esattamente il contrario. Meno abbiamo, meglio è. Tutte le mie tirature sono limitate a 25 esemplari e non ho voglia di venderle tutte. Ma il giorno che le venderò tutte, non mi resterà nulla. Bisogna che le cose abbiano un inizio ed una fine.




Non ha mai lavorato su commissione per la stampa?

No, mai. I giornalisti, soprattutto americani, ogni volta che mi chiamano per una foto, ne hanno bisogno per ieri. Voi lavorate come volete, io lavoro così. Mi chiedevano foto per le copertine, per le pagine interne, ma rifiutavo perché non potevo prima vedere gli impaginati.


 Per Keith Richards il suo lavoro è stato importante, ha dedicato un intero capito della sua autobiografia Life al periodo francese di Exile…

Era molto contento quando ho pubblicato il libro Exile perché erano trent’anni che si raccontava la storia di Villa Nellcote, ma non c’era nessuna prova di ciò che era successo. Keith Richards ha comprato 200 delle 250 copie dell’edizione limitata di Exile e le ha regalate a tutti coloro che in qualche modo hanno partecipato alla carriera dei Rolling Stones.

Come nascevano i pezzi di Exile on Main Street?

Il disco è nato soprattutto nelle cantine di Villa Nellcôte, dove non c’era ventilazione, era tutto molto umido, non c’era climatizzazione. Era l’inferno, solo Keef poteva sopportare una cosa del genere. Dunque, Keef arrivava con qualche accordo e Bill iniziava a suonare. Se Bill o Charlie non validavano il pezzo, uno dei due si alzava e andava su in cucina, poteva essere sia Bill sia Charlie. Era tutta una comunicazione non verbale, nessuna discussione. Dopo, se Bill o Charlie accettavano di proseguire sul pezzo di Keef, allora iniziavano a provare quel pezzo il lunedì sera e lo suonano tutte le notti per una intera settimana, perché bisognava che anche Mick Taylor trovasse il suo posto, che tutti trovassero il loro posto dentro il pezzo, facendolo evolvere. Exile è qualcosa di speciale perché nasce interamente da una registrazione live, non c’era uno studio professionale, non è stato possibile manipolare il suono.





 
Pensa che sia un disco di Keith Richards, di Mick Jagger o di entrambi?

La musica è di Keef e di Gram Parsons. Per questo Mick Jagger era inquieto. Perché l’idea di Gram era che Keef suonasse e producesse il suo album solista. Se Keef si fosse lanciato in questa avventura, ha pensato Mick, il modello dei Rolling Stones si sarebbe rotto. Così, ad un certo punto, Mick decide che il gruppo si metta a lavorare al disco il più rapidamente possibile perché il progetto di Keef e Gram fallisca. Mick Jagger porta il gruppo fuori dalle cantine della Nellcôte e decide di riascoltare anche quello che era stato messo da parte, per vedere se c’erano buoni pezzi scartati e accelerare il lavoro. In Exile ritroviamo quindi brani che erano stati registrati anche anni prima. Quando il gruppo riprende la capacità di lavorare insieme, vengono registrati i nuovi pezzi. Per questo Exile è stato accolto male dalla critica musicale dell’epoca, perché là dentro sembrava essersi perso il senso musicale. Ma l’idea di Gram Parson era che “il rock è l’incontro tra la musica dei bianchi americani con la musica nera americana”. In Exile si ritrovano entrambi gli stili, anche all’interno di uno stesso brano. E questo era esattamente l’album che Keef e Gram volevano fare insieme.

Mick Jagger è un manager…

Sì, e ricordiamo che loro hanno fatto un album intitolato Dirty Work, è necessario che qualcuno faccia questo lavoro, e di sicuro non è Keef, non è stato Bill, non è Charlie. E’ evidente che Mick vuole fare la parte del leone. I Rolling Stones di solito entravano in studio, e prima di mettessi agli strumenti, avviavano il registratore. La grossa discussione tra Mick e Keef era che Mick voleva copiare tutto quello che era stato archiviato su nastro e rivenderlo d’occasione. Mick diceva: bisogna pagare tutte queste persone.



Si è divertito a Villa Nellcôte?

Quando hai 22 anni, sei sconosciuto, vieni da una famiglia parigina che ha passato due guerre mondiali e tutto il resto… ti ritrovi in questa meravigliosa villa, con il sole, gli animali, la vegetazione, i bambini, dove mangi molto bene, dove i cancelli non sono mai chiusi e ci sono un sacco di ragazze che entrano e chiedono “è qui Mick Jagger?” e tu rispondi “no, Mick non è qui, ma sono qui io”… per la prima volta nella mia vita ho avuto l’impressione di vivere una vita normale.









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