uno dei due è l'altro

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sabato 24 marzo 2018

Il Capitalismo nelle campagne: diboscamenti, dissodamenti e degradazione







Nulla di nuovo sotto il sole del capitalismo. O meglio, sotto le sue intemperie. I dissesti e le catastrofi (naturali o meno) che oggi ci vengono spacciati come "emergenza", visti in una prospettiva storica  altro non sono che le immediate e stringenti  conseguenze delle sfruttamento capitalistico del suolo, iniziato ben presto  anche in Italia. Così come descritto in questo breve e bel capitolo tratto dal  classico "  Storia del Paesaggio Agrario Italiano"* 
di Emilio Sereni.






Nel 1778, un agronomo umanista veneto, il Lorenzi, in un suo bel poemetto, che porta il titolo significativo "Della coltivazione dei monti",


...ma l'avaro villano, e a farsi grande 
per nuovi spazi di campagna intento, sempre più desiose l'ali spande,
 sì come vela che si pieghi al vento. Gl'intatti boschi assale; e da le ghiande scuote la quercia un dì cara  a l'armento, cara al pastor che, su la terra ingombra mentre il gregge pascea, sedeva  a l'ombra. 
Ivi l'erbe cresceano, util pastura
 agli agnelli , ai giovenche, ai tardi buoi... 



Ora, conclude il Lorenzi, dopo aver deprecato le disastrose conseguenze di un diboscamento e di dissodamenti inconsulti, ora


...più non resta al bue prato, né selva
al gregge, o tana a più romita belva.






Quello di restituire alla selva, al prato, al pascolo le pendici montane, degradate dal diboscamento e dai dissodamenti inconsulti, era insomma, già negli ultimi decenni del secolo XVIII, un problema che cominciava ad imporsi con urgenza all’attenzione degli agronomi più avvertiti. 

Non mancano del resto, a cominciare dalla metà del Settecento, nei vari Stati italiani, misure legislative rivolte alla tutela di un patrimonio forestale in via di sempre più rapida degradazione: così quelle prese nel Napoletano, ad esempio, coi rescritti del 1749, del 1756, del 1762

La stessa insistenza su tali misure, tuttavia, ce ne documenta l’inefficacia, che ci è confermata da tutte le fonti contemporanee; mentre quelle fonti stesse ci dicono quanto fosse operante, invece - ai fini di una rapida estensione dei diboscamenti e dei dissodamenti - quello scioglimento dal vincolo forestale di vasti territori boschivi della Toscana, decretato nel 1776 e nel 1780 nel quadro della politica riformatrice di Pietro Leopoldo.

Certo è che allo «spirito dei tempi» - o, più concretamente, alle nuove esigenze che la penetrazione sempre più larga di interessi capitalistici nell’economia terriera imponeva - certo è, dicevamo, che allo «spirito dei tempi» le misure antivincolistiche di Pietro Leopoldo rispondevano ben più esattamente che non la legislazione protettiva del patrimonio forestale, promulgata con ben scarsa efficacia, in quell’età, in altri Stati italiani. 

A partire dalla metà del Settecento, è vero, all’irrefrenabile estensione dei diboscamenti e dei dissodamenti concorre anche, per una parte non indifferente, la fame di terra dell’ «avaro villano»: che, come canta il Lorenzi, diviene anch’egli più intento «a farsi grande per nuovi spazi di campagna», ed assale anch’egli, per dissodarli e metterli a cultura, «gl’intatti boschi». Ma non si tratta più solo e tanto, anche in questo caso, come era avvenuto per il passato, della parte più povera della popolazione delle campagne, che nel dissodamento di un piccolo appezzamento di bosco cerca soprattutto la possibilità di ottener quella quantità di cereali, che è indispensabile al suo diretto consumo. 

L’effettivo accrescimento della popolazione non basterebbe a spiegare, di per se stesso, l’ampiezza del fenomeno, che trova invece nuovi motivi di sviluppo nella rinnovata convenienza della cultura granaria. Questa offre ora, infatti, più attraenti profitti all’azienda signorile, come a quella parte più agiata della popolazione contadina che viene sviluppando la sua economia in senso mercantile e capitalistico: sicché, già per questo verso, è la ricerca del profitto capitalistico che comincia a divenire il motore e il regolatore decisivo del ritmo dei dissodamenti.




Tale ritmo, senza dubbio accelerato nella seconda metà del Settecento, non basta neanch’esso, tuttavia, a darci ragione dell’effettiva estensione dei diboscamenti, che supera di molto, in questa età, quella dei dissodamenti e delle nuove terre ridotte a cultura. Per quanto riguarda il suo intervento nel processo stesso della produzione agricola, in effetti, il capitale - lo abbiam visto a proposito della funzione prevalentemente intermediaria dei grandi e medi affittuari - incontra ancora non lievi difficoltà. 

Più antica, invece, e l’efficacia del capitale commerciale e usurario nello sfruttamento di un altro settore dell’economia terriera, quello forestale. Non si tratta, qui, di un più decisivo intervento nel processo stesso della produzione: basta, invece, che il capitale commerciale o usuraio intervenga port factum, quando il ciclo della produzione è compiuto, ad acquistare il taglio del bosco di un signore indebitato o di una Comunità stremata nelle sue finanze. A questa stregua, evidentemente, il diboscamento può procedere con un ritmo indipendente da quello dei dissodamenti, e ben più rapido.

Fin dalla metà del Seicento, in effetti - da un’età, cioè, per la quale si può parlare, semmai, di una riduzione, e non di un’estensione delle terre ridotte a cultura – si può documentare, per molte parti d’Italia, un ritmo accelerato dei diboscamenti, che già esprime un aggravato intervento del capitale commerciale e usurario nello sfruttamento delle risorse forestali, più sovente abbandonate, in passato, agli esclusivi usi locali. Nel dominio veneto, ad esempio, per il cui patrimonio forestale ci è conservata una documentazione storico-statistica particolarmente ricca e precisa, sappiamo che l’incremento annuo di tutte le fustaie, che era stato positivo sino al 1662, comincia a declinare da quell’anno; e indizi analoghi si possono ritrovare per gli altri Stati italiani.

In nessun campo, si può dire, l’intervento del capitale nell’economia terriera manifesta la sua efficacia negativa con tanta precocità e con tanta gravità come in questo: nei diboscamenti, prima ancora che nei dissodamenti inconsulti. Nel Settecento, e particolarmente nell’età delle riforme, ma più ancora nell’età napoleonica e per tutta la prima metà dell’Ottocento, l’estensione dei dissodamenti verrà ulteriormente ad aggravare la portata e le conseguenze di questo diboscamento, del cui ritmo sfrenato il decisivo regolatore diviene ormai il profitto capitalistico, col triste accompagnamento della disperata fame di terra di contadini immiseriti. 


primo quadro

Che disastri il diboscamento e il dissodamento delle più erte pendici montane preparassero a tanta parte del nostro paese ce lo documenta con persuasiva efficacia, già per la fine del secolo XVIII, una stampa popolare contemporanea, da noi riprodotta nel primo quadro, che ci mostra,  l’erta riva calabrese dello Stretto, già tutta diboscata e ridotta a cultura nel 1782; e nel secondo, la sua definitiva degradazione dopo l’enorme frana del 24 marzo 1790, che, a sette anni dal terremoto del 1783, provocando un vero e proprio maremoto che, come dice la leggenda della stampa, «diede  a fantasticare a’ piccoli scrittori de’ calabri terremoti».

secondo quadro




* Biblioteca universale Laterza, 1987








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