uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

venerdì 19 giugno 2015

L’altrove dell’Occidente


Da
di Iain Chambers


Ulisse e le Sirene


Estraneo in casa
       Vorrei cominciare trattando un problema che, in un modo o nell’altro, ci riguarda tutti, tanto nella nostra attività intellettuale quanto nella vita quotidiana: forse la sovranità nazionale non si sta sgretolando in quel modo così spettacolare previsto dai profeti del capitale trans-globale e del flusso di informazioni. Né tantomeno si sta sfaldando per lasciare il posto a un senso d’identità trans-nazionale. I curdi, i baschi, i palestinesi, i tibetani, reclamano tutti quanti il loro diritto all’autogoverno. Si scopre che “la nazione è sempre una realtà in divenire, piuttosto che una realtà già consolidata”. Per quanto già istituita, pare sempre che la nazione stia sempre a un passo dal compimento, ma senza mai arrivarci del tutto. Di certo, come ha asserito Arjun Appadurai (1996), i media e l’emigrazione dei nostri tempi hanno alterato profondamente sia l’immaginazione pubblica che quella privata, in ogni luogo, modificando profondamente gli orizzonti potenziali dell’identità. Eppure, in un mondo in cui la volontà di combattere, uccidere, e persino di morire per un’astrazione chiamata “patria” o “nazione”, è spesso indissolubilmente legata a una precisa appartenenza etnica o fede religiosa, le forze complesse che configurano sostanzialmente il senso dell’appartenenza e della “casa” rimangono prepotentemente al loro posto. Continua a esistere
una vicinanza inquietante e, come osserva Ghassan Hage, persino un immaginario nazionalista strutturato in maniera simile che accomuna le identità etniche, spesso costituite come “nazioni” e “pulizia etnica”. In altre parole, c’è una vicinanza inquietante tra apparentamento e sterminio .



Il mistero della casa
       Il mistero del senso di appartenenza depositato nel desiderio, nella necessità di far parte di un’unità storica, sociale e culturale cui ci si riferisce come “casa” o “patria”, malgrado le teorie ottimistiche elaborate sul nomadismo e sul divenire rizomatico, stenta a scomparire. Come si è già rilevato, la casa in quanto domus è etimologicamente affine a dominus: dominio. La casa è il luogo in cui è possibile dominare e addomesticare, governare e articolare le cose e le relazioni, i materiali e i corpi, la fantasia e la realtà. Eppure, siamo tutti ben consapevoli di quanto sia alto il prezzo che l’umanità paga per questo desiderio: dall’ostracismo sociale, lo sfruttamento economico e la discriminazione razziale alla guerra, l’eliminazione fisica e, perfino, il genocidio pianificato e industrializzato. Non siamo nella posizione per risolvere questo mistero, il quale chiaramente va al di là delle nostre capacità di raziocinio. Questo significa che lo stato “irragionevole” della nazione e del nazionalismo è irrazionale? Oppure esprime una disposizione di sentimenti con cui potremmo imparare a convivere diversamente?

      Una volta Alejandro Morales, romanziere chicano, mi ha domandato: dove finisce l’esilio e ha inizio la migrazione?”. Chiaramente questa matura alla luce di quello, ma fluttuare tra i due termini forse rende possibile focalizzarsi meglio sullo spostamento politico e ontologico dal restare nelle ombre lunghe di una patria che si è stati costretti ad abbandonare e il sopravvivere nei complessi meandri di un paese ospitante che sta anche diventando casa tua.
   Il passaggio dall’esilio alla migrazione, per quanto inevitabilmente sfumato, implica il movimento dalle certezze perdute della casa precedente che devono essere preservate dalla dispersione del viaggio, all’assai più ambigua e incerta sistemazione del nuovo habitat; questo perché se anche chi emigra si aggrappa ancora a una comunità immaginaria, si tratta di una comunità ancora legata alle trasformazioni della sua cultura, della tradizione, del linguaggio, persino dei riti e dei miti religiosi, nello spazio traslato in cui sia essa che la comunità ospitante subiscono una trasformazione. In questo contesto, raccontare la nazione significa anche narrare un’ulteriore storia e applicare ulteriori interrogativi nel mosaico dell’identità individuale e comune.
Al di là delle distinzioni fenomenologiche che si potrebbe essere tentati di delineare cercando di localizzare la differenza tra esilio e migrazione, vorrei considerare la tematica dell’esilio, della migrazione e dello straniero come argomento che riguarda la comprensione stessa della modernità occidentale: il suo senso della storia, della cultura, del luogo e dell’identità. Significa trarre, dai presunti margini della modernità, la testimonianza insistente dello spostamento coatto di genti e culture, che si segnala nella maniera più drammatica nell’instaurazione violenta, e nella successiva interazione, di schiavitù a sfondo razzista, capitalismo, nazionalismi moderni e genocidio.


Joseph Mallord William Turner

    Le economie atlantiche e i rampanti Stati nazionali europei inizialmente venivano sostentati dal commercio degli schiavi africani. L’attività del colonialismo a livello mondiale che ne conseguì spaziava da episodi metropolitani come lo svuotamento delle Highlands scozzesi operata nel diciottesimo secolo alla deportazione dei galeotti verso remote colonie penali, alle migrazioni di massa del secolo successivo, originate dalla povertà rurale dell’Europa meridionale, dell’India e della Cina. Tutto questo costituisce una traiettoria che svolge un ruolo cruciale nella dominazione sistematica che conduce ai pogrom, al genocidio e al tentativo di sradicare intere popolazioni dal cuore delle Americhe, dell’Europa centrale, dell’Australia e di altre regioni. Nel complesso miscuglio di storie inter-etniche e intersubalterne, il problema di chi sia l’estraneo nella composizione assilla ogni revisione storica e politica. Gli scozzesi delle Highlands che, espulsi dalle loro case e stabilitisi in altre zone di altri continenti (America settentrionale, Australia, Nuova Zelanda) espellono altri dalle loro case, contribuiscono alla subalternità storica che semplicemente non è uguale per tutti (1). Il colono bianco, a prescindere da quanto sia povero e sfruttato, rimane sistematicamente un usurpatore. La catena del dislocamento globale inaugurata dall’imperialismo moderno è complessa e codificata, producendo subalternità che sono allo stesso tempo collegate eppure spesso incommensurabili.
    
    Oggi queste storie multiple, represse e ineguali ritornano per dislocare radicalmente le pretese unilaterali di possedere un linguaggio, una cultura, una storia, una città, una nazione, una “casa”, abitando e strutturando diversamente questi linguaggi, raccontando la modernità con un altro lessico in un’altra chiave. L’“indigeno” sterminato, l’“esule” bandito, lo “straniero” disprezzato ritorna continuamente per infestare la modernità e la confortante protezione della stabilità e della continuità. Ma non semplicemente per proporre la disseminazione e la dispersione della grammatica euroamericana del potere da parte del subalterno e di chi prima era escluso; ma, soprattutto, e più precisamente, per chiedere con insistenza l’interruzione della pretesa della privativa storica e culturale e del “progresso” (chi ha costruito questa casa, e di chi è questa casa?); un interruzione che mi costringa a riflettere su come non ci sia storia, cultura o identità che sia immune dall’esposizione alla risposta e alla responsabilità dell’interrogativo che scaturisce dalla presenza dell’estraneo, dalla vicinanza dell’altro. Come ci ha ricordato Johannes Fabian (1999), nell’incontro con l’alterità, lo sforzo di mantenere una distanza gerarchica impedisce di ricordare da dove veniamo: una casa ibrida, infestata da riti storici, pregiudizi culturali e superstizioni sociali.

    Per citare il suggestivo lavoro di Paul Carter (1996) intitolato The Lie of the Land, questa prospettiva potrebbe implicare un’inversione o un rovesciamento delle connotazioni generalmente negative della migrazione e dell’esilio, perché la migrazione e l’esilio vengono immancabilmente considerati eccentrici, indice di impoverimento culturale. Questo verdetto, asserisce Carter, deriva da: 
un programma politico, dalle ambizioni centraliste della polis ateniese e dai suoi apologisti. La sfida, quantomeno per la poetica postcoloniale, è vedere in che modo la migrazione potrebbe comportare una forma di collocazione, potrebbe essere effettivamente costituzionale e rappresentare una modalità del sentirsi a casa nel mondo. La storia della cultura occidentale si limita a una sequenza di recinzioni scientifiche e tecnologiche sempre più astratte che progressivamente ci separano dal contatto col suolo e che caratterizzano il moto fisico come primitivo? Oppure c’è, all’interno di quella sequenza, una controtradizione, una modalità dell’errare che segna il terreno? Pallade Atena potrà mai prendere il controllo della tempesta? 


Joseph Mallord William Turner

    In questa prospettiva sbalzata, l’oggetto del mio sguardo, l’oggetto del mio linguaggio, l’estraneo silenzioso, l’emigrante muto, diviene un soggetto storico, che non solo risponde e quindi non esiste limitatamente al mio discorso, alle mie parole e al mio mondo, ma offre altresì un significato che non mi appartiene necessariamente, e nemmeno riconosce le mie pretese sul suo senso. In questa ricusazione della distinzione soggetto-oggetto, avviene sia che la padronanza del linguaggio venga messa in discussione, sia che la distanza critica, che fornisce ospitalità alla mia sicurezza ontologica, si disperda e si elimini. Se si scopre che il mondo che nomino non mi appartiene, non soggiace al mio controllo, allora il movimento da casa e dall’ambiente domestico verso un ambiente estraneo in cui, come dice Edmond Jabès, viaggio ora come ospite, non dipende dalla mia volontà, bensì dall’ospitalità del linguaggio. Questo altro luogo, questa alterità, non è soggetta ai miei imperativi, non mi nutre e non alimenta il mio ego. Non fornisce più la strada per fare ritorno attraverso l’altro. Sostiene Emmanuel Lévinas:
Né il possesso né l’unità del piano, né l’unità del concetto, possono legarmi allo Straniero [l’Étranger] (…) lo Straniero che viene a turbare la mia casa [le chez soi]. Ma Straniero significa anche il libero. Su di lui non posso potere. Sfugge alla mia presa per un fatto essenziale, anche se dispongo di lui. 
Non è interamente nel mio luogo.

    Il problema dell’altro è sempre il problema dell’estraneo, dell’outsider, di chi viene da un altro luogo e inevitabilmente reca il messaggio di un movimento che minaccia di perturbare la stabilità dell’ambiente domestico. Ciò che cerchiamo di tenere a debita distanza viene reso vicino, l’esterno (per il quale in passato si costruivano le mura, e oggi si emanano le leggi) (2) diviene interno, ineluttabile. Nello scambio ontologico, il mio senso dell’essenza si ritrova ad affrontare un interrogativo, viene reso vulnerabile. Riconoscere  questo stato invece che negarlo, sottometterlo o an-
nientarlo significa porre non soltanto il problema della tolleranza
liberale e della coesistenza pluralista, ma anche un interrogativo
profondo e perenne. Sempre Emmanuel Lévinas aggiunge:

La relazione etica, che sottende il discorso, non è infatti una varietà della coscienza che si irradia dall’Io. Essa mette in questione l’io. Questa messa in questione parte dall’altro.


Joseph Mallord William Turner

    Nel viaggio nel futuro, si rivela determinante anche il viaggio a ritroso, verso il focolare. Il passaggio tra passato e futuro si accompagna sempre alla ricerca della conferma di casa. Per alcuni si tratta di un punto di riferimento saldo, di una stabilità rassicurante rappresentata in termini economici, sociali e storici, per altri è spesso un’immagine fragile, sbiadita e spesso strappata, nutrita più dal barlume immaginario della memoria che dall’immediatezza della conferma materiale. In questo intervallo tra la casa che mi invita ad andare avanti e quella che mi richiama indietro, emerge
la forza di attrazione multipla del tempo, un tempo che non è semplicemente lineare e progressivo. Se il tempo, come osserva Akhil Gupta (1994), viene considerato immancabilmente un bene di consumo, allora il tempo di alcuni viene necessariamente considerato più ricco e potente del tempo di altri.
Contro l’enfasi occidentale posta sul tempo lineare, che misura assiduamente lo sviluppo e il sottosviluppo sulla scia del “progresso”, c’è il tempo della migrazione, e la migrazione del tempo da una modalità unica di misura. È mediante la ricombinazione multipla del tempo, Salman Rushdie ci ricorda nei Versi Satanici (1988), che la novità emerge nel mondo. Il concorso di ritmi differenti nell’ambito della modernità deforma, svia e distorce la sua unilateralità. Dimensioni diverse perturbano e interrompono la temporalità produttiva dell’accumulo misurato, lineare. Nella giustizia della differenziazione, il tempo vissuto della modernità va al di là della singolarità parziale e astratta del “progresso”. Ciò perturba, pone in discussione e 

porta via il terreno su cui si sono storicamente costruite le distinzioni nella narrazione occidentale del progresso, le distinzioni che continuano a giustificare, sotto le mentite spoglie dello “sviluppo”, la subordinazione e la gestione del “terzo mondo” di oggi.

    Se l’Occidente è diventato il mondo, in questo processo ha anche subito uno spostamento. Se i suoi linguaggi, le sue tecnologie e tecniche ormai abbracciano tutta la terra e forniscono il senso contemporaneo dell’abitare, la sua storia e i suoi poteri vengono vissuti da altri che vi esprimono le loro storie, identità, ragioni. Il mio (ego)centro viene interrotto, perché qui, quali che siano i miei desideri, sono costretto ad affrontare, nel linguaggio stesso che presumo di possedere, l’incommensurabile, l’intraducibile, il cuore di un’essenza che rifiuta di essere ricondotta a una misura comune; ossia, alla mia misura e alla mia concezione del mondo.

    A prescindere da quando e dove lo si nomini, emerge il legame represso che rende la “casa” possibile per alcuni, impossibile per altri. Viaggiando tra l’alloggio e la condizione di senza tetto, le categorie stesse con cui generalmente si costruisce la “casa” (la tradizione, il linguaggio, il costume, l’affinità) fanno i conti con altre versioni inattese. Quando le coordinate di un luogo e di una storia particolari (quelli dell’Occidente) si disseminano per il mondo, allora la particolare connotazione locale della tradizione e della lingua si ritrova in un viaggio interminabile. Qui, nel transito e nella traduzione, la natura stessa del luogo e della casa subisce una mutazione irreversibile. Il vicino, ciò che si trova a portata di mano nella costruzione della mia casa e del senso di me stesso, non può più essere legato al sangue, al suolo, e all’orizzonte chiuso dell’immediato e del locale. Il mito delle “origini” pure si fonde ormai con altri, proiettando osservazioni sull’appartenenza (a cosa? dove? come?) verso l’esterno, in uno spazio vulnerabile. Il tempo e la tradizione di un’economia culturale locale sono scalfiti da una serie di interrogativi che toccano tutti, ma proprio tutti i luoghi.

  Sono nato tra due onde
e la mia pelle diventa
ancora più scivolosa.

    Così scrive il poeta iraniano emigrato Majid Nafici. Quando il mondo si comprime e il remoto si congiunge al vicino, il non domestico al domestico, si scatena la repressione che perseguita e infrange ogni rappresentazione della casa, della cultura e del sé.

Joseph Mallord William Turner
   
    Nel disfarsi del mito della casa, in cui il viaggio conferma sempre il punto di partenza fissato dall’illusione che alla fine si tornerà a casa, l’archetipo occidentale di Ulisse viene dirottato e mandato alla deriva. Il senso greco e omerico di “casa”, esaminato da Horkheimer e Adorno (1947) nella loro famosa analisi dell’Illuminismo, non fornisce solamente l’ovvia rassicurazione della familiarità, ma anche la formazione culturale e il sostegno psicologico che strutturano la conseguente ragione dell’ego. Armato di certezza domestica, l’individuo è in grado di avventurarsi nel mondo, di affrontare tormenti e vicissitudini, indagarne le manifestazioni e tornare a casa con la conoscenza che ha guadagnato, perché:

le avventure dànno a ciascun luogo il suo nome; e il loro risultato è il controllo razionale dello spazio. Il naufrago tremebondo anticipa il lavoro della bussola. La sua impotenza, a cui nessun posto del mare è più ignoto, tende insieme a destituire le potenze (Horkheimer, Adorno).

    Una coscienza centrata nell’Io, una ragione tesa al controllo: un uomo solo traccia la rotta verso casa. La casa, per lui, non è necessariamente un rifugio o un riparo fisico; è la casa della conoscenza la cui forza propulsiva gli promette l’accesso a ciò che deve conoscere, scoprire e assimilare.

    Ciò che intendo è che un viaggio del genere (in cui la ragione autonoma e patriarcale percorre un tragitto attraverso il mondo, immemore della voce e delle storie degli altri, rifiutando, per dirla con Paul Carter “di cedere l’autorità a qualcosa di diverso dalla propria rappresentazione”) oggi è intellettualmente impossibile: al termine del viaggio non si fa ritorno a casa, non c’è un’Itaca che aspetta, non c’è Penelope, il viaggio non ha fine. La prospettiva di addomesticare il mondo al fine di confermare la struttura e l’avarizia dell’ego è interrotta per sempre.


Joseph Mallord William Turner

    Il mondo, il senso del luogo e dell’appartenenza, del domestico e dell’estraneo, della stessa modernità occidentale, viene riconfigurato in modo irreversibile. Il momento di sconcerto indotto dal primo contatto e dall’asservimento di altre storie alla teleologia dell’Occidente ritorna a infestare la casa della conoscenza e gli assetti politici e psicologici che pretende di avere fissato. L’esperienza perturbante della modernità non è più una sensazione empirica periferica o transitoria. Di certo non lo è mai stata. La messa in questione è fondamentale sia per la riproduzione economica e sociale della modernità sia per le resistenze che diffonde. Significa abitare una formazione storica differenziata ma condivisa che rielabora e riprogramma radicalmente il nostro senso dell’essere al mondo. Ecco che il riconoscimento della problematicità e della dislocazione non è costituito unicamente da una sensazione heideggeriana di non avere una casa, indotta dall’oblio tecnico e strumentale delle modalità dell’essere, ma trova anche e più precisamente espressione nel senso della casa che si costruisce nelle coordinate temporali delle storie incerte e che rendono incerti. Spesso sottovalutate e più in generale represse nell’acquisizione del benessere locale, sono queste coordinate che costituiscono in maniera più profonda la nostra precaria dimora nel mondo. Proprio la consapevolezza di una siffatta cognizione non può più essere negata con facilità.

Il trauma della traduzione
    Sia l’essere estraneo, migrante, che un profondo senso di appartenenza dipendono dalla definizione di luogo. Ci sono sia il luogo in cui l’esiliato, l’emigrante si presenta come estraneo sia il luogo o la “casa” che si lascia alle spalle. Affrontare questo problema, come asserisce l’antropologo urbano messicano Néstor García Canalini (1995) nel suo libro intitolato Hybrid Cultures: Strategies for Entering and Leaving Modernity, significa confrontarsi con qualcosa di più radicale e di portata maggiore del multiculturalismo e della politica dell’identità. Non si tratta semplicemente di riconoscere, in ritardo, il corpo precedentemente negato della storia, la storia di corpi negati, in una narrazione nazionalista ora intenta a ospitare la diversità. Questo perché al di là della risposta immediata che può offrire temporaneamente ospitalità all’alterità, una risposta più adeguata e meno episodica alla questione dell’esilio, della migrazione e del dislocamento può emergere senza dubbio solo dalla cosiderazione del terreno stesso evocato dal luogo: il luogo precedente da cui proviene l’emigrante e il luogo presente che ospita il corpo dell’emigrata, la storia dell’esiliato, la loro cultura. Nel movimento attraverso i vettori economici e politici della modernità, è la concezione diversa del tempo e del luogo, al pari di passaporti e permessi di lavoro, accento e religione, che identifica l’emigrante, l’estraneo che “si integra” o meno.
    Il passaggio della migrazione comporta il trauma di essere tradotto in un oggetto. Questo trova forzatamente conferma nell’essere successivamente posto ai margini, in una posizione “minoritaria”, in quanto migrante: l’estraneo la cui presenza riconferma la non posizionalità, il movimento liberale di chi abita il centro nazionale, la principale corrente politica, il consenso culturale. Se, per definizione, l’emigrato, il migrante e l’estraneo evocano uno spazio liminale, la loro presenza ha anche la conseguenza compensatoria di relegare la “casa”, la sensazione di luogo e di appartenenza, in un particolare luogo storico e ontologico. L’arrivo dell’estraneo genera un confine, una frontiera, sia immaginari che effettivi. I limiti imposti, le barriere erette, non creano solamente l’estraneo, che resta fuori: costruiscono, limitano e definiscono la natura stessa di ciò che sta “dentro”.

    Pertanto, mi sembra importante esaminare come si colloca il luogo sul terreno, come viene costruito e concepito. Tali elementi potrebbero contribuire a fornire una risposta e un linguaggio in cui considerare l’esilio e la migrazione, l’arrivo dello straniero. Vorrebbe dire pensare non in termini di minaccia di fronte alla quale cerco un riparo immediato, bensì di una risposta improcrastinabile nei confronti delle storie represse che mi consentono di sentirmi al sicuro mentre mantengo il mio terreno definendo ed escludendo l’altro.


Joseph Mallord William Turner

    Il luogo. La cosa più ovvia parlando del luogo in compagnia di stranieri è di riferirsi al suo nome in un linguaggio e una storia inevitabilmente istituzionalizzati nella grammatica culturale nevrotica della nazionalità. Il senso moderno del luogo, per quanto rechi ancora i segni di concezioni arcaiche (villaggio, dialetto locale, città o regione) trova la sua premessa, sia per l’estraneo che per chi lo ospita, nella nomenclatura nazionale. I particolari degli abiti, nella lingua, dell’accento, del cibo, della religione e delle tradizioni trovano un riscontro in questo senso d’appartenenza. Tuttavia, sappiamo che spesso si tratta di un’approssimazione, talvolta di una lettura erronea. Molti di questi particolari precedono il moderno stato nazionale e, per quanto siano stati smussati per rispettare i requisiti dell’identità nazionale, inevitabilmente debordano da quella limitata cornice pedagogica. Lo spagnolo non appartiene alla Spagna, come l’Islam non appartiene all’Iran, né l’inglese è prerogativa dell’Inghilterra. Pertanto, quando si nomina la propria identità, si accetta e allo stesso tempo si rifiuta una storia di appartenenza omogenea e nazionale. La grammatica prescrittiva del nazionalismo che tenta, sia a casa che all’estero, di contenere la potenziale eterogeneità e di appianare la contestazione in nome del consenso pubblico, è potenzialmente superata e sfidata nell’idioletto che parla di appartenenza individuale.

    Ma di quale “luogo” sto parlando? Quello dell’emigrante, dello straniero, o quello dell’indigeno, del locale, del padrone di casa? Il senso di terreno che si propone qui, non l’astratta unità del tempo lineare e dello spazio vuoto occupato dalla “nazione”, ma il terreno aspro, sconnesso, resistente e sregolato del quotidiano in cui la storia lascia tracce, proposte e direzioni multiple e aggrovigliate, non investe forse sia il luogo dell’estraneo che il luogo del residente? Queste osservazioni perturbano il tempo omogeneo di un’identità nazionale unica, deviando il tracciato lineare della freccia del “progresso”, facendo un passo lateralmente nei multipli luoghi della temporalità coeva e nelle storie che ci collocano in una collettività variegata. Qui l’aborigeno australiano, il chicano di città e l’inglese che abita in periferia occupano un mondo condiviso, anche se asimmetrico. Tutti e tre rientrano nella modernità senza essere riducibili alla narrazione unitaria che la modernità spesso finge di offrire.

    Tuttavia, anche questo senso del territorio che rifiuta la cornice nazionale e mette in discussione la presunta posizione tanto dell’emigrante che del residente è soltanto il primo capitolo di una contronarrazione che promette di riscrivere la comprensione stessa del terreno, del luogo e dell’identità. Al movimento laterale che rende multipla la modernità ed eterotopico il mondo, occorre ag giungere un ritorno in cui le narrazioni privilegiate della modernità schiudono una formazione ibrida. La migrazione, inevitabilmente rafforzata dalla schiavitù, dall’imperialismo, dal colonialismo, dal dominio tecnologico, dall’egemonia economica e politica, è sempre stata presente come elemento costitutivo della modernità occidentale fin dalla sua origine, cinque secoli fa.

Joseph Mallord William Turner


1) Si veda al riguardo il lucido resoconto della mostra da lui stesso curata, “River Deep Mountain High: Then and Now – A Story of Cultural Collision using Native American sources, Commentary from the Highlands of Scotland and Artists from Both Sides of the Atlantic”, Inverness Museum e Art Gallery (luglio-agosto 1997), in Amery 1997.

2) Il testo è del 2003. Oggi in Europa accade questo (nota di ubu)

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