Da
di Iain Chambers
Estraneo
in casa
Vorrei
cominciare trattando un problema che, in un modo o nell’altro, ci
riguarda tutti, tanto nella nostra attività intellettuale quanto
nella vita quotidiana: forse la sovranità nazionale non si sta
sgretolando in quel modo così spettacolare previsto dai profeti del
capitale trans-globale e del flusso di informazioni. Né tantomeno si
sta sfaldando per lasciare il posto a un senso d’identità
trans-nazionale. I curdi, i baschi, i palestinesi, i tibetani,
reclamano tutti quanti il loro diritto all’autogoverno. Si scopre
che “la nazione è sempre una realtà in divenire, piuttosto che
una realtà già consolidata”. Per quanto già
istituita, pare sempre che la nazione stia sempre a un passo dal
compimento, ma senza mai arrivarci del tutto. Di certo, come
ha asserito Arjun Appadurai (1996), i media e l’emigrazione dei
nostri tempi hanno alterato profondamente sia l’immaginazione
pubblica che quella privata, in ogni luogo, modificando profondamente
gli orizzonti potenziali dell’identità. Eppure, in un mondo in cui
la volontà di combattere, uccidere, e persino di morire per
un’astrazione chiamata “patria” o “nazione”, è spesso
indissolubilmente legata a una precisa appartenenza etnica o fede
religiosa, le forze complesse che configurano sostanzialmente il
senso dell’appartenenza e della “casa” rimangono
prepotentemente al loro posto. Continua a esistere
una vicinanza
inquietante e, come osserva Ghassan Hage, persino un “immaginario
nazionalista strutturato in maniera simile” che accomuna le
identità etniche, spesso costituite come “nazioni” e “pulizia
etnica”. In altre parole, c’è una vicinanza inquietante tra
apparentamento e sterminio .
Il mistero della casa
Il
mistero del senso di appartenenza depositato nel desiderio, nella
necessità di far parte di un’unità storica, sociale e culturale
cui ci si riferisce come “casa” o “patria”, malgrado le
teorie ottimistiche elaborate sul nomadismo e sul divenire
rizomatico, stenta a scomparire. Come si è già rilevato, la casa in
quanto domus è etimologicamente affine a dominus: dominio. La casa è
il luogo in cui è possibile dominare e addomesticare, governare e
articolare le cose e le relazioni, i materiali e i corpi, la fantasia
e la realtà. Eppure, siamo tutti ben consapevoli di quanto sia alto
il prezzo che l’umanità paga per questo desiderio: dall’ostracismo
sociale, lo sfruttamento economico e la discriminazione razziale alla
guerra, l’eliminazione fisica e, perfino, il genocidio pianificato
e industrializzato. Non siamo nella posizione per risolvere questo
mistero, il quale chiaramente va al di là delle nostre capacità di
raziocinio. Questo significa che lo stato “irragionevole” della
nazione e del nazionalismo è irrazionale? Oppure esprime una
disposizione di sentimenti con cui potremmo imparare a convivere
diversamente?
Una volta
Alejandro Morales, romanziere chicano, mi ha domandato: dove finisce
l’esilio e ha inizio la migrazione?”. Chiaramente questa matura
alla luce di quello, ma fluttuare tra i due termini forse rende
possibile focalizzarsi meglio sullo spostamento politico e ontologico
dal restare nelle ombre lunghe di una patria che si è stati
costretti ad abbandonare e il sopravvivere nei complessi meandri di
un paese ospitante che sta anche diventando casa tua.
Il
passaggio dall’esilio alla migrazione, per quanto inevitabilmente
sfumato, implica il movimento dalle certezze perdute della casa
precedente che devono
essere preservate dalla dispersione del viaggio, all’assai più
ambigua e incerta sistemazione del nuovo habitat; questo perché se
anche chi emigra si aggrappa ancora a una comunità immaginaria, si
tratta di una comunità ancora legata alle trasformazioni della sua
cultura, della tradizione, del linguaggio, persino dei riti e dei
miti religiosi, nello spazio traslato in cui sia essa che la comunità
ospitante subiscono una trasformazione. In questo contesto,
raccontare la nazione significa anche narrare un’ulteriore storia e
applicare ulteriori interrogativi nel mosaico dell’identità
individuale e comune.
Al di là
delle distinzioni fenomenologiche che si potrebbe essere tentati di
delineare cercando di localizzare la differenza tra esilio e
migrazione, vorrei considerare la tematica dell’esilio, della
migrazione e dello straniero come argomento che riguarda la
comprensione stessa della modernità occidentale: il suo senso della
storia, della cultura, del luogo e dell’identità. Significa
trarre, dai presunti margini della modernità, la testimonianza
insistente dello spostamento coatto di genti e culture, che si
segnala nella maniera più drammatica nell’instaurazione violenta,
e nella successiva interazione, di schiavitù a sfondo razzista,
capitalismo, nazionalismi moderni e genocidio.
Le
economie atlantiche e i rampanti Stati nazionali europei inizialmente venivano
sostentati dal commercio degli schiavi africani. L’attività del
colonialismo a livello mondiale che ne conseguì spaziava da episodi
metropolitani come lo svuotamento delle Highlands scozzesi operata
nel diciottesimo secolo alla deportazione dei galeotti verso remote
colonie penali, alle migrazioni di massa del secolo successivo,
originate dalla povertà rurale dell’Europa meridionale, dell’India
e della Cina. Tutto questo costituisce una traiettoria che svolge un
ruolo cruciale nella dominazione sistematica che conduce ai pogrom,
al genocidio e al tentativo di sradicare intere popolazioni dal cuore
delle Americhe, dell’Europa centrale, dell’Australia e di altre
regioni. Nel complesso miscuglio di storie inter-etniche e
intersubalterne, il problema di chi sia l’estraneo nella
composizione assilla ogni revisione storica e politica. Gli scozzesi
delle Highlands che, espulsi dalle loro case e stabilitisi in altre
zone di altri continenti (America settentrionale, Australia, Nuova
Zelanda) espellono altri dalle loro case, contribuiscono alla
subalternità storica che semplicemente non è uguale per tutti (1).
Il colono bianco, a prescindere da quanto sia povero e sfruttato,
rimane sistematicamente un usurpatore. La catena del dislocamento
globale inaugurata dall’imperialismo moderno è complessa e
codificata, producendo subalternità che sono allo stesso tempo
collegate eppure spesso incommensurabili.
Oggi
queste storie multiple, represse e ineguali ritornano per dislocare
radicalmente le pretese unilaterali di possedere un linguaggio, una
cultura, una storia, una città, una nazione, una “casa”,
abitando e strutturando diversamente questi linguaggi, raccontando la
modernità con un altro lessico in un’altra chiave. L’“indigeno”
sterminato, l’“esule” bandito, lo “straniero” disprezzato
ritorna continuamente per infestare la modernità e la confortante
protezione della stabilità e della continuità. Ma non semplicemente
per proporre la disseminazione e la dispersione della grammatica
euroamericana del potere da parte del subalterno e di chi prima era
escluso; ma, soprattutto, e più precisamente, per chiedere con
insistenza l’interruzione della pretesa della privativa storica e
culturale e del “progresso” (chi ha costruito questa casa, e di
chi è questa casa?); un interruzione che mi costringa a riflettere
su come non ci sia storia, cultura o identità che sia immune
dall’esposizione alla risposta e alla responsabilità
dell’interrogativo che scaturisce dalla presenza dell’estraneo,
dalla vicinanza dell’altro. Come ci ha ricordato Johannes Fabian
(1999), nell’incontro con l’alterità, lo sforzo di mantenere una
distanza gerarchica impedisce di ricordare da dove veniamo: una casa
ibrida, infestata da riti storici, pregiudizi culturali e
superstizioni sociali.
Per
citare il suggestivo lavoro di Paul Carter (1996) intitolato The
Lie of the Land,
questa prospettiva potrebbe implicare un’inversione o un
rovesciamento delle connotazioni generalmente negative della
migrazione e dell’esilio, perché la migrazione e l’esilio
vengono immancabilmente considerati eccentrici, indice di
impoverimento culturale. Questo verdetto, asserisce Carter, deriva
da:
un
programma politico, dalle ambizioni centraliste della polis ateniese
e dai suoi apologisti. La sfida, quantomeno per la poetica
postcoloniale, è vedere in che modo la migrazione potrebbe
comportare una forma di collocazione, potrebbe essere effettivamente
costituzionale e rappresentare una modalità del sentirsi a casa nel
mondo. La storia della cultura occidentale si limita a una sequenza
di recinzioni scientifiche e tecnologiche sempre più astratte che
progressivamente ci separano dal contatto col suolo e che
caratterizzano il moto fisico come primitivo? Oppure c’è,
all’interno di quella sequenza, una controtradizione, una modalità
dell’errare che segna il terreno?
Pallade Atena
potrà mai prendere il controllo della tempesta?
In questa
prospettiva sbalzata, l’oggetto del mio sguardo, l’oggetto del
mio linguaggio, l’estraneo silenzioso, l’emigrante muto, diviene
un soggetto storico, che non solo risponde e quindi non esiste
limitatamente al mio discorso, alle mie parole e al mio mondo, ma
offre altresì un significato che non mi appartiene necessariamente,
e nemmeno riconosce le mie pretese sul suo senso. In questa
ricusazione della distinzione soggetto-oggetto, avviene sia che la
padronanza del linguaggio venga messa in discussione, sia che la
distanza critica, che fornisce ospitalità alla mia sicurezza
ontologica, si disperda e si elimini. Se si scopre che il mondo che
nomino non mi appartiene, non soggiace al mio controllo, allora il
movimento da casa e dall’ambiente domestico verso un ambiente estraneo in
cui, come dice Edmond Jabès, viaggio ora come ospite, non dipende
dalla mia volontà, bensì dall’ospitalità del linguaggio. Questo
altro luogo, questa alterità, non è soggetta ai miei imperativi,
non mi nutre e non alimenta il mio ego. Non fornisce più la strada
per fare ritorno attraverso l’altro. Sostiene Emmanuel Lévinas:
Né il
possesso né l’unità del piano, né l’unità del concetto,
possono legarmi allo Straniero [l’Étranger] (…) lo Straniero che
viene a turbare la mia casa [le chez soi]. Ma Straniero significa
anche il libero. Su di lui non posso potere. Sfugge alla mia presa
per un fatto essenziale, anche se dispongo di lui.
Non è interamente nel mio luogo.
Non è interamente nel mio luogo.
Il problema
dell’altro è sempre il problema dell’estraneo, dell’outsider,
di chi viene da un altro luogo e inevitabilmente reca il messaggio di
un movimento che minaccia di perturbare la stabilità dell’ambiente
domestico. Ciò che cerchiamo di tenere a debita distanza viene reso
vicino, l’esterno (per il quale in passato si costruivano le mura,
e oggi si emanano le leggi) (2) diviene interno, ineluttabile. Nello
scambio ontologico, il mio senso dell’essenza si ritrova ad
affrontare un interrogativo, viene reso vulnerabile. Riconoscere
questo stato invece che negarlo, sottometterlo o an-
nientarlo significa porre non soltanto il problema della tolleranza
liberale e della coesistenza pluralista, ma anche un interrogativo
profondo e perenne. Sempre Emmanuel Lévinas aggiunge:
La
relazione
etica, che sottende il discorso, non è infatti una varietà della
coscienza che si irradia dall’Io. Essa mette in questione l’io.
Questa messa in questione parte dall’altro.
Nel viaggio
nel futuro, si rivela determinante anche il viaggio a ritroso, verso
il focolare. Il passaggio tra passato e futuro si accompagna sempre
alla ricerca della conferma di casa. Per alcuni si tratta di un punto
di riferimento saldo, di una stabilità rassicurante rappresentata in
termini economici, sociali e storici, per altri è spesso un’immagine
fragile, sbiadita e spesso strappata, nutrita più dal barlume
immaginario della memoria che dall’immediatezza della conferma
materiale. In questo intervallo tra la casa che mi invita ad andare
avanti e quella che mi richiama indietro, emerge
la forza di
attrazione multipla del tempo, un tempo che non è semplicemente
lineare e progressivo. Se il tempo, come osserva Akhil Gupta (1994),
viene considerato immancabilmente un bene di consumo, allora il tempo
di alcuni viene necessariamente considerato più ricco e potente del
tempo di altri.
Contro
l’enfasi occidentale posta sul tempo lineare, che misura
assiduamente lo sviluppo e il sottosviluppo sulla scia del
“progresso”, c’è il tempo della migrazione, e la migrazione
del tempo da una modalità unica di misura. È mediante
la ricombinazione multipla del tempo, Salman Rushdie ci ricorda nei
Versi Satanici (1988), che la novità emerge nel mondo. Il concorso
di ritmi differenti nell’ambito della modernità deforma, svia e
distorce la sua unilateralità. Dimensioni diverse perturbano e
interrompono la temporalità produttiva dell’accumulo misurato,
lineare. Nella giustizia della differenziazione, il tempo vissuto
della modernità va al di là della singolarità parziale e astratta
del “progresso”. Ciò perturba, pone in discussione e
porta via
il terreno su cui si sono storicamente costruite le distinzioni nella narrazione occidentale del progresso, le distinzioni che continuano a
giustificare, sotto le mentite spoglie dello “sviluppo”, la
subordinazione e la gestione del “terzo mondo” di oggi.
Se
l’Occidente è diventato il mondo, in questo processo ha anche
subito uno spostamento. Se i suoi linguaggi, le sue tecnologie e
tecniche ormai abbracciano tutta la terra e forniscono il senso
contemporaneo dell’abitare, la sua storia e i suoi poteri vengono
vissuti da altri che vi esprimono le loro storie, identità, ragioni.
Il mio (ego)centro viene interrotto, perché qui, quali che siano i
miei desideri, sono costretto ad affrontare, nel linguaggio stesso
che presumo di possedere, l’incommensurabile, l’intraducibile, il
cuore di un’essenza che rifiuta di essere ricondotta a una misura
comune; ossia, alla mia misura e alla mia concezione del mondo.
A
prescindere da quando e dove lo si nomini, emerge il legame represso
che rende la “casa” possibile per alcuni, impossibile per altri.
Viaggiando tra l’alloggio e la condizione di senza tetto, le
categorie stesse con cui generalmente si costruisce la “casa” (la
tradizione, il linguaggio, il costume, l’affinità) fanno i conti
con altre versioni inattese. Quando le coordinate di un luogo e di
una storia particolari (quelli dell’Occidente) si disseminano per
il mondo, allora la particolare connotazione locale della tradizione
e della lingua si ritrova in un viaggio interminabile. Qui, nel
transito e nella traduzione, la natura stessa del luogo e della casa
subisce una mutazione irreversibile. Il vicino, ciò che si trova a
portata di mano nella costruzione della mia casa e del senso di me
stesso, non può più essere legato al sangue, al suolo, e
all’orizzonte chiuso dell’immediato e del locale. Il mito delle
“origini” pure si fonde ormai con altri, proiettando osservazioni
sull’appartenenza (a cosa? dove? come?) verso l’esterno, in uno
spazio vulnerabile. Il tempo e la tradizione di un’economia
culturale locale sono scalfiti da una serie di interrogativi che
toccano tutti, ma proprio tutti i luoghi.
Sono
nato tra due onde
e la
mia pelle diventa
ancora più scivolosa.
Così
scrive il poeta iraniano emigrato Majid Nafici. Quando il mondo si
comprime e il remoto si congiunge al vicino, il non domestico al
domestico, si scatena la repressione che perseguita e infrange ogni
rappresentazione della casa, della cultura e del sé.
Nel
disfarsi del mito della casa, in cui il viaggio conferma sempre il
punto di partenza fissato dall’illusione che alla fine si tornerà
a casa, l’archetipo occidentale di Ulisse viene dirottato e mandato
alla deriva. Il senso greco e omerico di “casa”, esaminato da
Horkheimer e Adorno (1947) nella loro famosa analisi
dell’Illuminismo, non fornisce solamente l’ovvia rassicurazione
della familiarità, ma anche la formazione culturale e il sostegno
psicologico che strutturano la conseguente ragione dell’ego. Armato
di certezza domestica, l’individuo è in grado di avventurarsi nel
mondo, di affrontare tormenti e vicissitudini, indagarne le
manifestazioni e tornare a
casa con la conoscenza che ha guadagnato, perché:
le
avventure dànno a ciascun luogo il suo nome; e il loro risultato è
il controllo
razionale dello spazio. Il naufrago tremebondo anticipa il lavoro
della bussola. La sua impotenza, a cui nessun posto del mare è più
ignoto, tende insieme a destituire le potenze
(Horkheimer, Adorno).
Una
coscienza centrata nell’Io, una ragione tesa al controllo: un uomo
solo traccia la rotta verso casa. La casa, per lui, non è
necessariamente un rifugio o un riparo fisico; è la casa della
conoscenza la cui forza propulsiva gli promette l’accesso a ciò
che deve conoscere, scoprire e assimilare.
Ciò che
intendo è che un viaggio del genere (in cui la ragione autonoma e
patriarcale percorre un tragitto attraverso il mondo, immemore della
voce e delle storie degli altri, rifiutando, per dirla con Paul
Carter “di cedere l’autorità a qualcosa di diverso dalla propria
rappresentazione”) oggi è intellettualmente impossibile: al
termine del viaggio non si fa ritorno a casa, non c’è un’Itaca
che aspetta, non c’è Penelope, il viaggio non ha fine. La
prospettiva di addomesticare il mondo al fine di confermare la
struttura e l’avarizia dell’ego è interrotta per sempre.
Il mondo,
il senso del luogo e dell’appartenenza, del domestico e
dell’estraneo, della stessa modernità occidentale, viene
riconfigurato in modo
irreversibile. Il momento di sconcerto indotto dal primo contatto e
dall’asservimento di altre storie alla teleologia dell’Occidente
ritorna a infestare la casa della conoscenza e gli assetti politici e
psicologici che pretende di avere fissato. L’esperienza perturbante
della modernità non è più una sensazione empirica periferica o
transitoria. Di certo non lo è mai stata. La messa in questione è
fondamentale sia per la riproduzione economica e sociale della
modernità sia per le resistenze che diffonde. Significa abitare una
formazione storica differenziata ma condivisa che rielabora e
riprogramma radicalmente il nostro senso dell’essere al mondo. Ecco
che il riconoscimento della problematicità e della dislocazione non
è costituito unicamente da una sensazione heideggeriana di non avere
una casa, indotta dall’oblio tecnico e strumentale delle modalità
dell’essere, ma trova anche e più precisamente espressione nel
senso della casa che si costruisce nelle coordinate temporali delle
storie incerte e che rendono incerti. Spesso sottovalutate e più in
generale represse nell’acquisizione del benessere locale, sono
queste coordinate che costituiscono in maniera più profonda la
nostra precaria dimora nel mondo. Proprio la consapevolezza di una
siffatta cognizione non può più essere negata con facilità.
Il trauma della traduzione
Sia
l’essere estraneo, migrante, che un profondo senso di appartenenza dipendono
dalla definizione di luogo. Ci sono sia il luogo in cui l’esiliato,
l’emigrante si presenta come estraneo sia il luogo o la “casa”
che si lascia alle spalle. Affrontare questo problema, come asserisce
l’antropologo urbano messicano Néstor García Canalini (1995) nel
suo libro intitolato Hybrid
Cultures: Strategies
for Entering and Leaving Modernity,
significa confrontarsi con
qualcosa di più radicale e di portata maggiore del multiculturalismo
e della politica dell’identità. Non si tratta semplicemente di
riconoscere, in ritardo, il corpo precedentemente negato della
storia, la storia di corpi negati, in una narrazione nazionalista ora
intenta a ospitare la diversità. Questo perché al di là della
risposta immediata che può offrire temporaneamente ospitalità
all’alterità, una risposta più adeguata e meno episodica alla
questione dell’esilio, della migrazione e del dislocamento può
emergere senza dubbio solo dalla cosiderazione del terreno stesso
evocato dal luogo: il luogo precedente da cui proviene l’emigrante
e il luogo presente che ospita il corpo dell’emigrata, la storia
dell’esiliato, la loro cultura. Nel movimento attraverso i vettori
economici e politici della modernità, è la concezione diversa del
tempo e del luogo, al pari di passaporti e permessi di lavoro,
accento e religione, che identifica l’emigrante, l’estraneo che
“si integra” o meno.
Il
passaggio della migrazione comporta il trauma di essere tradotto in
un oggetto. Questo trova forzatamente conferma nell’essere
successivamente posto ai margini, in una posizione “minoritaria”,
in quanto migrante: l’estraneo la cui presenza riconferma la non
posizionalità, il movimento liberale di chi abita il centro
nazionale, la principale corrente politica, il consenso culturale.
Se, per definizione, l’emigrato, il migrante e l’estraneo evocano
uno spazio liminale, la loro presenza ha anche la conseguenza
compensatoria di relegare la “casa”, la sensazione di luogo e di
appartenenza, in un particolare luogo storico e ontologico. L’arrivo
dell’estraneo genera un confine, una frontiera, sia immaginari che
effettivi. I limiti
imposti, le barriere erette, non creano solamente l’estraneo, che
resta fuori: costruiscono, limitano e definiscono la natura stessa di
ciò che sta “dentro”.
Pertanto,
mi sembra importante esaminare come si colloca il luogo sul terreno,
come viene costruito e concepito. Tali elementi potrebbero
contribuire a fornire una risposta e un linguaggio in cui considerare
l’esilio e la migrazione, l’arrivo dello straniero. Vorrebbe dire
pensare non in termini di minaccia di fronte alla quale cerco un
riparo immediato, bensì di una risposta improcrastinabile nei
confronti delle storie represse che mi consentono di sentirmi al
sicuro mentre mantengo il mio terreno definendo ed escludendo
l’altro.
Il luogo.
La cosa più ovvia parlando del luogo in compagnia di stranieri è di
riferirsi al suo nome in un linguaggio e una storia inevitabilmente
istituzionalizzati nella grammatica culturale nevrotica della
nazionalità. Il senso moderno del luogo, per quanto rechi ancora i
segni di concezioni arcaiche (villaggio, dialetto locale, città o
regione) trova la sua premessa, sia per l’estraneo che per chi lo
ospita, nella nomenclatura nazionale. I particolari degli abiti,
nella lingua, dell’accento, del cibo, della religione e delle
tradizioni trovano un riscontro in questo senso d’appartenenza.
Tuttavia, sappiamo che spesso si tratta di un’approssimazione,
talvolta di una lettura erronea. Molti di questi particolari
precedono il moderno stato nazionale e, per quanto siano stati
smussati per rispettare i requisiti dell’identità nazionale,
inevitabilmente debordano da quella limitata cornice pedagogica. Lo
spagnolo non appartiene alla Spagna, come l’Islam non
appartiene all’Iran, né l’inglese è prerogativa
dell’Inghilterra. Pertanto, quando si nomina la propria identità,
si accetta e allo stesso tempo si rifiuta una storia di appartenenza
omogenea e nazionale. La grammatica prescrittiva del nazionalismo che
tenta, sia a casa che all’estero, di contenere la potenziale
eterogeneità e di appianare la contestazione in nome del consenso
pubblico, è potenzialmente superata e sfidata nell’idioletto che
parla di appartenenza individuale.
Ma di
quale “luogo” sto parlando? Quello dell’emigrante, dello
straniero, o quello dell’indigeno, del locale, del padrone di casa?
Il senso di terreno che si propone qui, non l’astratta unità del
tempo lineare e dello spazio vuoto occupato dalla “nazione”, ma
il terreno aspro, sconnesso, resistente e sregolato del quotidiano in
cui la storia lascia tracce, proposte e direzioni multiple e
aggrovigliate, non investe forse sia il luogo dell’estraneo che il
luogo del residente? Queste osservazioni perturbano il tempo omogeneo
di un’identità nazionale unica, deviando il tracciato lineare
della freccia del “progresso”, facendo un passo lateralmente nei
multipli luoghi della temporalità coeva e nelle storie che ci
collocano in una collettività variegata. Qui l’aborigeno
australiano, il chicano di città e l’inglese che abita in
periferia occupano un mondo condiviso, anche se asimmetrico. Tutti e
tre rientrano nella modernità senza essere riducibili alla
narrazione unitaria che la modernità spesso finge di offrire.
Tuttavia,
anche questo senso del territorio che rifiuta la cornice nazionale e
mette in discussione la presunta posizione tanto dell’emigrante che del
residente è soltanto il primo capitolo di una contronarrazione che
promette di riscrivere la comprensione stessa del terreno, del luogo
e dell’identità. Al movimento laterale che rende multipla la
modernità ed eterotopico il mondo, occorre ag giungere un ritorno in
cui le narrazioni privilegiate della modernità schiudono una
formazione ibrida. La migrazione, inevitabilmente rafforzata dalla
schiavitù, dall’imperialismo, dal colonialismo, dal dominio
tecnologico, dall’egemonia economica e politica, è sempre stata presente come elemento costitutivo della modernità occidentale
fin dalla sua origine, cinque secoli fa.
1) Si veda al
riguardo il lucido resoconto della mostra da lui stesso curata,
“River Deep Mountain
High: Then and Now – A Story of Cultural Collision using Native
American sources, Commentary from the Highlands of Scotland and
Artists from Both Sides of the Atlantic”, Inverness Museum e Art
Gallery (luglio-agosto 1997), in Amery 1997.
2) Il testo è del 2003. Oggi in Europa accade questo (nota di ubu)
Nessun commento:
Posta un commento