Da Alias, supplemento settimanale de "Il Manifesto" del 15 novembre 2014. Jacques Derrida intervista Ornette Coleman.
Voglio semplicemente dire, sull'orlo dell'abisso: chi saprà sostituire Ornette?
Riaffiora una storica intervista apparsa in Francia nel ’97. Dall’incontro dell’autore de «La voce e il fenomeno» con il sassofonista scaturisce un curioso e inatteso contraddittorio su composizione, improvvisazione, lingua e razzismo.
Voglio semplicemente dire, sull'orlo dell'abisso: chi saprà sostituire Ornette?
Riaffiora una storica intervista apparsa in Francia nel ’97. Dall’incontro dell’autore de «La voce e il fenomeno» con il sassofonista scaturisce un curioso e inatteso contraddittorio su composizione, improvvisazione, lingua e razzismo.
L’OCCASIONE FURONO I TRE STORICI CONCERTI ALLA VILLETTE DI PARIGI
di JACQUES DERRIDA*
Questa intervista - di cui si sono perse le trascrizioni originali - è stata realizzata dal filosofo Jacques Derrida il 23 giugno 1997. Ornette Coleman, sassofonista e compositore, maestro dell’avanguardia nera si trovava a Parigi per tre concerti alla Villette, museo e sede per le arti performative (tra le quali il Conservatorio). Il filosofo intervistò Ornette Coleman che era al momento impegnato con il progetto «Civilization», una serie di esibizioni che comprendevano esecuzione della partitura sinfonica Skies of America, su composizione, improvvisazione, lingua e razzismo concerti in trio con Billy Higgins e Charlie Haden, membri del suo Quartetto «storico», e infine un concerto di Prime Time, il gruppo elettrico e «free funk». Composizione, improvvisazione, lingua, razzismo sono le tematiche principali dell’intervista riaffiorata di recente, apparsa nel '97 in Francia sulla rivista Les Inrockuptibles e a cui si è fatto riferimento in questa sede.
Quest'anno
presenterà un programma dal titolo «Civilizzazione». Che rapporto
c'è fra il titolo che ha scelto e la sua musica?
Cerco di esprimere un
concetto secondo cui una cosa può essere tradotta in un'altra. Credo
che il suono abbia una relazione assai democratica con
l’informazione, perché non c'è bisogno dell'alfabeto per capire
la musica. Quest'anno sto preparando un progetto con la Filarmonica
di New York e il mio primo quartetto (senza Don Cherry) e altri
gruppi in aggiunta. Sto cercando di realizzare l’idea secondo cui
il suono si rinnova ogni volta che viene espresso.
Lei ritiene di
agire più da compositore o da musicista?
Come compositore, spesso le
persone mi dicono, 'Suonerà brani che ha già suonato, o cose
nuove?'.
Dunque lei non risponde mai a queste domande, giusto?
Se ti trovi a suonare
musica che hai già registrato, la maggior parte dei musicisti
riterrà di essere stata chiamata a mantener viva quella musica
specifica. E la maggior parte dei musicisti non ha grande entusiasmo
quando si trova a suonare la stessa musica in continuazione. Dunque
io preferisco scrivere musica che non è mai stata eseguita prima.
Vuole sorprenderli?
Sì, voglio stimolarli
piuttosto che semplicemente chiedere loro di accompagnarmi in
pubblico. Ma è difficile da farsi, perché il musicista di jazz è
forse l'unica persona per la quale la figura del compositore non è
qualcosa di interessante, nel senso che preferisce 'distruggere'
quanto il compositore scrive o suona.
Quando afferma che
il suono è più «democratico», come la mette con il fatto che è
un compositore, e scrive musica come tutti in forma codificata?
Nel 1972 ho scritto una
sinfonia dal titolo Skies of America, è stato quasi una tragedia,
perché io non avevo un gran bella relazione con la scena musicale:
esattamente come quando facevo free jazz, la gente perlopiù credeva
che semplicemente io prendessi il mio sassofono, e poi mi mettessi a
suonare quanto mi passava per la testa, senza seguire alcuna regola.
Il che ovviamente non è vero.
Certo. La gente al di
fuori crede che sia una forma di libertà eccezionale, io credo
invece che sia un limite. Dunque ci sono voluti vent'anni, ma oggi
finalmente posso avere un brano suonato dall'orchestra sinfonica di
New York e dal suo direttore. Giorni fa parlando con membri della
Filarmonica, questi mi hanno detto, 'Senti Ornette, le persone
incaricate delle partiture hanno bisogno di vedere le tue'. Io ero
terribilmente arrabbiato: è come se mi avessero scritto una lettera
e una terza persona la dovesse leggere per confermarmi che nella
lettera stessa non c'è nulla che possa irritarmi. Era per essere
sicuri che la Filarmonica non avrebbe avuto disturbi. E poi mi han
detto, 'L'unica cosa che vogliamo sapere è se c'è un punto lì, una
parola in quell’altro spazio'. In realtà non aveva nulla a che
fare con la musica o con il suono, ma solo con i simboli che usiamo.
Infatti la musica che scrivo da trent'anni e che definisco
'armolodia' è come se
stessi fabbricando le mie parole personali, con un'idea precisa di
cosa quelle parole nuove debbano significare per le altre persone.
Ma chi suona con lei
condivide questa concezione della musica?
Normalmente io parto dal
fatto di scrivere qualcosa che loro possano analizzare, la suono
assieme a loro, e poi consegno le partiture. Nella prova successiva
chiedo loro di mostrarmi cos'hanno scoperto e come dall’idea di
base se ne possano sviluppare altre. Lo faccio sia con i musicisti,
sia con gli studenti dei miei corsi. Io credo che chiunque tenti di
esprimersi con le parole, con la poesia, nella forma che volete, può
prendere il mio libro dell'armolodia e scrivere seguendone i
precetti, con la stessa passione e gli stessi elementi di fondo.
Nella preparazione
del nuovo progetto di New York, ha prima scritto la musica e poi
chiesto a chi doveva partecipare di leggerla, vedere se si trovava in
accordo, e alla fine di trasformare il materiale originario?
Per la Filarmonica ho
dovuto scrivere le parti per ogni strumento, fotocopiarle, poi
confrontarmi con la persona che si occupa delle partiture. Con i
gruppi jazz, compongo e distribuisco le parti direttamente alle
prove. Quello che è veramente sconcertante nella musica improvvisata
è che, a dispetto del nome che usiamo, la maggior parte dei
musicisti in realtà usa una base per improvvisare. Mi sono trovato
di recente a incidere un disco con un musicista europeo, Joachim
Kühn, e la musica che ho scritto per suonare con lui, e poi
registrata nell'agosto del '96, ha due caratteristiche: è totalmente
improvvisata, e al contempo segue leggi e regole della musica
europea. Ciò nonostante, a sentirla, sembra quasi totalmente
improvvisata.
Ricapitolando: il
musicista legge lo schema di fondo, e poi interviene il tocco
personale?
Sì, l'idea è che due o
tre persone possano avere una conversazione con i suoni senza che
nessuno tenti di guidare o indirizzare la conversazione stessa.
Intendo dire: si tratta di intelligenza, quella la parola. Credo che
nella musica improvvisata i musicisti cerchino di rimettere assieme i
pezzi di un puzzle emotivo o intellettuale, e in ogni caso si tratta
di un puzzle nel quale il tono è dato dagli strumenti. Il pianoforte
- più o meno sempre - è servito come base per la musica, ma ora non
è più indispensabile: infatti gli aspetti più propriamente
commerciali della musica sono diventati molto incerti. Peraltro la
musica che passa attraverso il mercato non è necessariamente più
accessibile, ma ha dei limiti.
Quando inizia a
provare, tutto è pronto e scritto, o già prevede di lasciare spazi
aperti?
Supponiamo di essere nel
momento in cui si suona e tu capti qualcosa che potrebbe essere
sviluppato. A quel punto dovresti dirmi, 'Proviamo questo'. La musica
non ha leader, per quanto mi riguarda.
Cosa ne pensa della
relazione tra il concerto, che è poi l’evento, la musica scritta e
la musica improvvisata? Ritiene che la musica scritta impedisca
all’evento di accadere?
No. Non so se sia vero
per le questioni che attengono alla lingua ma nel jazz si può
prendere un pezzo molto antico e farne una nuova versione. La cosa
eccitante è il ricordo che se ne trasmette al presente. Comunque ciò
di cui parla, la metamorfosi di una forma in una forma diversa è
qualcosa di assai sano, ma raro.
Forse sarà
d’accordo con me sul fatto che al cuore dell’improvvisazione vi è
la lettura, dal momento che spesso ciò che capiamo
dall’improvvisazione è la creazione di qualcosa di nuovo, ma che
tuttavia non esclude la matrice scritta che la ha resa possibile...
Vero.
Non credo di essere un esperto sulla sua musica, ma se provo a tradurre ciò che lei fa in un ambito che conosco meglio, quello del linguaggio scritto, l’evento unico - che si produce una volta sola - è cionondimeno qualcosa di ripetuto nella struttura stessa. C’è dunque una ripetizione, nella struttura, intrinseco alla creazione iniziale, che compromette o comunque complica il concetto di improvvisazione. La ripetizione è già nell'improvvisazione: dunque quando la gente tende a intrappolarti tra improvvisazione e scrittura alla base, è in torto...
La ripetizione è naturale
esattamente come il fatto che la terra ruota.
Il suo ruolo di
artista e compositore può avere un effetto sullo stato delle cose?
No, non lo credo, ma
ritengo che molte persone ne abbiano già fatto esperienza prima di
me, e se comincio a lamentarmi, mi diranno, 'Perché ti lamenti? Non
siamo cambiati a causa di questa persona che ammiriamo ben più di
te, perché dovremmo cambiare grazie a te?' Dunque di fondo non la
penso così. Vivevo nel sud degli Stati Uniti quando le minoranze
erano oppresse, e mi identificavo con loro attraverso la mia musica.
Ero in Texas, cominciai a suonare il sassofono e a guadagnarmi da
vivere per me e la mia famiglia suonando alla radio. Un giorno
capitai in un posto pieno di gente che giocava d’azzardo e di
prostitute, gente che litigava, e mi capitò di vedere una donna
accoltellata. Pensai di dover scappare da lì. Allora dissi a mia
madre che non volevo più suonare la musica, che era come aggiungere
sofferenza alla sofferenza. Mi rispose, 'Che ti è preso, vuoi che
qualcuno ti paghi per la tua anima?'. Non ci avevo pensato, e quando
me lo disse, e come se avessi ricevuto un nuovo battesimo.
Sua madre aveva le
idee molto chiare...
Sì, era una donna
intelligente. Ho provato da quel giorno stesso a cercare il modo per
non sentirmi in colpa nel fare cose che le altre persone non fanno.
E ha avuto successo?
Non lo so, ma intanto era
venuto fuori il bebop, e lo vidi come una via d’uscita. È musica
strumentale non connessa specificatamente a una scena, che può
esistere a prescindere dal luogo. Dovunque suonassi il blues, c’erano
frotte di persone senza lavoro che non facevano altro che giocarsi i
soldi. Allora mi scelsi il bebop, la cosa nuova che stava succedendo
a New York, e mi dissi che dovevo andar là. Avevo solo 17 anni. Me
ne andai di casa, diretto a sud.
Sì, avevo i capelli
lunghi come i Beatles, era l’inizio degli anni Cinquanta. Dunque me
ne andai a sud, e tutti provavano a picchiarmi, polizia e gente nera;
non gli piacevo. Avevo un look troppo bizzarro per loro. Mi
prendevano a pugni e cercavano di rompere il mio sax. Era dura.
Inoltre ero con un gruppo che
suonava quella che più o
meno chiamavamo ’musica con i fiati da menestrelli’ e cercavo di
fare be bop, stavo anche facendo progressi e avevo trovato ingaggi.
Ero a New Orleans, me ne sono andato a visitare una famiglia molto
religiosa, e ho cominciato a suonare in una chiesa nera. Quand’ero
piccolo, suonavo sempre e solo in chiesa. Da quando mia madre mi
disse quelle parole, ho cercato una musica che potessi suonare senza
sentirmi in colpa per aver provato a fare qualcosa. E a tutt’oggi
non l’ho ancora trovata.
Quando è arrivato
a New York, ancora molto giovane, ha avuto qualche tipo di
premonizione su quelle che sarebbero state le sue scoperte musicali,
l’armolodia, o è successo tutto dopo?
No, perché quando sono
arrivato a New York mi trattavano più o meno come un tipo del sud
che non conosce la musica, che non sa né leggere né scrivere. Non
ho mai provato a controbattere. Ho poi deciso che avrei cominciato a
sviluppare le mie idee, e senza l’aiuto di nessuno. Mi sono
affittato il teatro Town Hall, era il 21 dicembre 1962, per 600
dollari, ho ingaggiato un gruppo rhythm’n’blues, uno classico e
un trio. Avevo chiesto a qualcuno di registrare il concerto, ma quel
qualcuno s’è suicidato, ed è successo che qualcun altro ha
registrato il concerto, fondato la sua etichetta con quella
registrazione, ed è sparito nel nulla. Tutto ciò mi ha fatto
capire, una volta di più, che lo avevo fatto per la stessa ragione
per cui avevo detto a mia madre che non avrei suonato più lì.
Ovviamente la situazione da un punto di vista di tecnologia, a
livello finanziario, sociale e perfino di rischio criminale era
davvero peggio di quando ero nel sud. Bussavo a porte che rimanevano
ostinatamente chiuse.
Qual è stato l’impatto di suo figlio sul suo lavoro? E ha a che fare con l’uso di nuove tecnologie nella sua musica?
Da quando Denardo è il
mio manager, ho capito finalmente che la tecnologia è semplice, e ne
ho compreso il significato.
Ha avuto la
sensazione che l’introduzione della tecnologia abbia portato
cambiamenti violenti nel suo progetto, o è stata cosa facile? E,
d’altra parte, il suo progetto «Civilization» ha che fare con
quanto viene definito globalizzazione?
C’è qualcosa di vero
in entrambe le affermazioni, nel senso di poter chiedere a te stesso
se siano esistiti 'uomini bianchi primitivi': la tecnologia sembra
sia in grado di coprire solo l’area di senso di 'bianco'.
Mi sembra di capire
che lei non creda al concetto di globalizzazione, e ritengo sia nel
giusto...
Se consideri la musica, i
compositori che sono stati realmente 'inventori' nella cultura
occidentale sono forse una mezza dozzina. Lo stesso vale per la
tecnologia, gli inventori di cui ho sentito davvero parlare sono
indiani di Calcutta e di Bombay. Ci sono un sacco di scienziati
indiani e cinesi. Le loro invenzioni
sono come delle
inversioni di idee di inventori americani o europei, ma la stessa
parola 'inventore' ha assunto un connotato di dominazione razziale
che è diventato più importante dell’invenzione stessa, cosa ben
triste, perché è l’equivalente di una qualche specie di
propaganda. Quello che intendo dire è che le differenze tra uomo e
donna o tra le razze sono in relazione alle educazioni e alle
credenze. Dal momento che io sono nero e discendente di schiavi, non
ho alcuna idea di quale fosse il mio linguaggio d’origine.
Se fossimo qui a
parlare di me (e non è questo il caso) direi che, in modo differente
ma analogo, mi succede la stessa cosa. Sono nato in una famiglia di
ebrei algerini che parlavano francese, che non era la loro lingua
d’origine. Ho scritto un piccolo libro su questo argomento, e in un
certo senso sono sempre nel processo di parlare in quello che
definisco 'il monolinguismo dell’Altro'. Non ho contatti di sorta
con la lingua d’origine o, meglio ancora, con quella dei miei
supposti antenati.
Non si chiede mai se la
lingua in cui parla ora interferisce, condiziona il suo vero
pensiero? Un lingua d’origine può influenzare i pensieri?
È un enigma per me. Non lo so. Credo che qualcosa parli attraverso di me, una lingua che io non capisco, una lingua che a volte cerco di tradurre più o meno facilmente nella 'mia lingua'. Ovviamente io sono un intellettuale francese, insegno in scuole dove si parla francese, ma ho sempre l’impressione che qualcosa mi forzi a far qualcosa per la lingua francese...
Ma lei sa che, per quanto
riguarda le mie vicende, negli Stati Uniti esiste l’ebonics, che
sarebbe l’inglese che parlano i neri: che è poi poter usare
un’espressione che significa qualcosa di diverso rispetto
all’inglese standard. La comunità nera ha sempre usato un lingua a
doppio significato. Quando sono arrivato in California, è stata la
prima volta che mi sono trovato in un posto dove un bianco non mi
diceva che non potevo sedermi in un certo posto. Poi qualcuno ha
cominciato a farmi moltissime domande, e io non riuscivo a
rispondere, allora sono andato da uno psichiatra per vedere se
riuscivo a rispondere. E quello mi ha prescritto del valium. L’ho
preso e buttato nella tazza del water. Non sempre mi rendevo conto di
dove fossi, così sono andato in una biblioteca e ho fatto ricerche
in tutti i libri che ho trovato sul cervello, mi son letto tutto. E i
libri dicevano che il cervello in fondo è conversazione. Non
dicevano a proposito di cosa, ma mi ha fatto capire che il fatto di
pensare e apprendere non dipende solo dal posto dove sei nato. Credo
di capire sempre meglio che quello che chiamiamo cervello, nel senso
di conoscenza e essere, non è la stessa cosa del cervello che ci fa
essere ciò che siamo.
Questo è sempre un
fatto di convinzione: noi conosciamo noi stessi in base a quanto
crediamo. Naturalmente nel suo caso è tragico, ma è un fatto
universale: noi crediamo (o supponiamo di credere) che siamo quel che
siamo attraverso le storie che ci raccontano. Un fatto rilevante è
che abbiamo esattamente la stessa età, siamo nati lo stesso anno.
Quando ero giovane, durante la guerra (non sono mai stato in Francia
prima dei diciannove anni) vivevo in Algeria, e nel 1940 sono stato
espulso da scuola perché ero ebreo, come risultato delle leggi
razziali, e non riuscivo neppure a capire cosa stesse succedendo.
L’ho capito molto tempo dopo, e questo attraverso storie che mi
hanno fatto capire chi fossi, per così dire. E perfino per quanto
riguarda sua madre, noi sappiamo chi è e che è in un certo modo
solo attraverso la narrazione. Ho cercato di capire in quale momento
storico lei fosse a New York e a Los Angeles, ed è stato prima che
venissero riconosciuti i diritti civili ai neri d’America. La prima
volta che sono stato negli Stati Uniti, nel 1956, c’erano cartelli
'solo per bianchi' ovunque, mi ricordo la
brutalità del
messaggio. Lei ne ha avuta esperienza diretta?
Certo. Sia come sia,
quello che mi piace di Parigi è che non puoi essere snob e razzista
allo stesso tempo, non funziona. Parigi è l’unica città che io
conosca dove il razzismo non appare mai in tua presenza, è qualcosa
di cui senti solo parlare.
Ciò non significa
che non ci sia razzismo, ma che sia commisurato obbligatoriamente al
contesto in cui si trova ad essere. Qual è la strategia alla base
della sua scelta musicale per Parigi?
Essere un innovatore per
me non significa essere più intelligente, più ricco. Non è una
parola, è un’azione. E dal momento che tale azione non s’è
ancora prodotta, non ha senso parlarne.
Ho capito che lei
preferisce il fare al parlare. Ma come si comporta lei con le parole?
Qual è la relazione tra la musica che fa e le sue parole, o quelle
che le persone cercano di sovrapporre a quello che lei fa? Prendiamo
ad esempio il problema di scegliere un titolo, come lo concepisce?
Una mia nipote è morta a
febbraio di quest’anno e sono andato al suo funerale. Quando l’ho
vista nella bara, ho notato che qualcuno le aveva messo degli
occhiali. Lì mi è venuta l’idea di chiamare un mio pezzo 'Lei
dormiva, morta, nella bara e indossava occhiali'. Poi ho cambiato
idea, e quel pezzo l’ho chiamato 'Appuntamento al buio'.
Vuol dire che quel
titolo s’è imposto da solo?
È che cercavo di capire il
fatto che qualcuno avesse messo gli occhiali a una donna morta...
avevo una qualche idea di cosa significava, ma è molto difficile
capire il modo di concepire la vita nulla a che fare con quello
maschile.
Lei ritiene che il
suo modo di scrivere musica ha a che fare con il modo in cui si
relaziona con le donne?
Prima di essere
conosciuto come musicista, quando lavoravo in un grande magazzino un
giorno, durante la pausa pranzo, sono capitato in una mostra, e lì
c’era un quadro che aveva dipinto qualcuno che ritraeva una donna
bianca e ricca, una di quelle persone che hanno assolutamente tutto
nella vita, e aveva l’espressione più solitaria che avessi mai
visto, in volto. Non mi ero mai imbattuto in una tale solitudine, e
quando sono tornato a casa ho scritto il pezzo Lonely Woman (donna solitaria).
Ma lei come interpreta
o valuta le sue stesse affermazioni?
Mi interessa assai di più
avere una relazione umana con lei piuttosto che una relazione
musicale. Voglio verificare se riesco a esprimermi con le parole, con
suoni che hanno a che fare con una relazione umana. Mi piacerebbe
anche essere in grado di parlare della relazione tra due talenti, tra
due azioni. Per me, la relazione umana è la cosa più bella, perché
ti mette in condizione di guadagnarti la libertà che desideri, per
te e per l’altra persona.
*traduzione e cura di
Guido Festinese
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