uno dei due è l'altro

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domenica 27 settembre 2015

Quel che resta di Toni Negri (Non si muove foglia che il capitale non voglia).

da 
Dacci Oggi il nostro Pane Quotidiano



Secondo Toni Negri, teorico dell’Impero, della Moltitudine e della crisi della marxiana legge del valore, «Parlare di Stato-nazione e di imperialismo senza periodizzarne la figura e la durata diviene molto pericoloso – quasi reazionario». Nientedimeno! Francamente non comprendo in che consista esattamente quel pericolo. Certo, se ci riferiamo a qualcuno che maneggia quei concetti in modo apologetico il «quasi» non ha ragion d’essere, e il pericolo che ci si para dinanzi possiamo fronteggiarlo con efficacia. In realtà la punta della critica negriana è rivolta contro la sinistra statalista, nostalgica del vecchio Capitalismo di Stato e sostenitrice di politiche neokeynesiane. E su questo punto egli mi trova del tutto in sintonia, e non da oggi. 


Ma il  tipo di critica che il bravo intellettuale scaglia contro chi vede «nella figura e nella presenza dello Stato-nazione la condizione essenziale dell’agire politico» non è aliena da ambiguità, e lascia immaginare una sua certa vicinanza, sebbene polemica e sofferta, a coloro che la sostengono, quasi fossero «compagni che sbagliano». Personalmente li ritengo funzionari del dominio sociale capitalistico alla stessa stregua dei cosiddetti «liberisti selvaggi», con l’aggravante, rispetto ai secondi, di aver non poco lordato la terminologia che ai tempi di Marx e di Lenin alludeva alla possibilità della rivoluzione sociale e dell’emancipazione universale.

Negri sostiene che «lo Stato-Nazione è in crisi». Bella scoperta! Nel Capitalismo avanzato lo Stato nazionale vive una condizione di crisi permanente, perché i sempre più rapidi mutamenti sociali innescati dal processo di produzione del valore stressano sempre di nuovo il politico, costretto a inseguire i mutamenti economici, tecnologici, psicologici, esistenziali nell’accezione più ampia e radicale del concetto, nel tentativo di smussarne le asperità, e di ricondurli, per quanto possibile, a un principio unitario. Sorto storicamente sulla base dello Stato nazionale, il Capitale ha avuto fin dal principio un carattere sovranazionale che gli deriva dalla sua smisurata necessità di trasformare l’intero pianeta e l’intera esistenza degli individui in occasioni di profitto.

Già nei primi scritti di Marx è chiaramente annunciata quella tendenza aggressiva ed espansiva del Capitale che agli occhi della «moltitudine» del XXI secolo appare in forma talmente dispiegata, da essere considerata come un fenomeno naturale e banale. Anche per questo il pensiero critico-radicale trova così tanta difficoltà ad affermarsi presso le «larghe masse»: la prossimità del Dominio lo rende quasi invisibile ai loro occhi, almeno nella sua interezza, nella sua reale dimensione. Ma più che di prossimità, dovremmo piuttosto parlare di intimità, di più: di consustanzialità. Infatti, sempre più il Dominio ci crea «a sua propria immagine e somiglianza»
come il buon Dio dell’Antico Testamento.


La violenta espansione geografica ed esistenziale (corpi “umani” compresi, ovviamente) delle esigenze economiche marchiate dal Capitale ci dà, a mio avviso, il corretto concetto di imperialismo e di globalizzazione. Due modi diversi di chiamare lo stesso processo sociale. Noi avvertiamo come «crisi dello Stato-Nazione» il suo continuo processo di adattamento a una società in continua trasformazione, quantitativa e qualitativa, a cagione della natura «rivoluzionaria», nell’accezione marxiana del concetto, del Capitalismo. Questo permanente stato di precarietà, o di «liquidità»per civettare con la sociologia alla moda, si acuisce nelle fasi di repentina accelerazione della tendenza «globalizzante». Non c’è dubbio che il ventennio che ci sta alle spalle abbia rappresentato un momento di accelerazione, che ha radicalmente cambiato la dislocazione del Potere (economico e politico) su scala mondiale. 

Scrive Marx: «Con la concorrenza universale [la grande industria] costrinse tutti gli individui alla tensione estrema delle loro energie. Essa distrusse il più possibile l’ideologia, la religione, la morale, ecc. e quanto ciò non le fu possibile ne fece flagranti menzogne. Essa produsse per la prima volta la storia mondiale, in quanto fece dipendere dal mondo intero ogni nazione civilizzata, e in essa ciascun individuo, per la soddisfazione dei suoi bisogni, e in quanto annullò l’allora esistente carattere esclusivo delle singole nazioni». La creazione del mercato mondiale da parte della grande industria, caratterizzata dalla sussunzione reale della capacità lavorativa sotto il dominio aggressivo ed espansivo del Capitale, crea la storia mondiale, nel cui seno esistono ed agiscono anche i Paesi non ancora giunti alla maturità capitalistica o addirittura ancora fermi a strutture sociali precapitalistiche. È, questo, lo spazio rigato dalla «legge dello sviluppo ineguale» 
e dallo scontro sistemico tra le moderne potenze imperialistiche. 

«In generale [la grande industria] creò dappertutto gli stessi rapporti tra le classi della società e in tal modo distrusse l’individualità particolare delle singole  nazionalità. E, infine, mentre la borghesia di ciascuna nazione conserva ancora interessi particolari, la grande industria creò una classe che ha il medesimo interesse in tutte le nazioni e per la quale la nazionalità è già annullata, una classe che è realmente liberata da tutto il vecchio mondo e in pari tempo si oppone ad esso». Qui è posta per la prima volta la fondamentale «contraddizione dialettica» tra il carattere universale e mondiale del Capitale, e la sua ristretta base storico-sociale d’origine: la Nazione. Questa dialettica di universalità e particolarità sta alla base delle relazioni internazionali e della crisi permanete della Sovranità politica sopra delineata.

La base del «vecchio imperialismo» era costituita dall’incessante ricerca da parte del Capitale di profitti sempre più pingui e rapidi (non di rado attraverso le forme più disparate di speculazione), di materie prime, di forza-lavoro a basso costo e di mercati «di sbocco». Una voracità talmente violenta e insaziabile da trascinare nelle spire imperialistiche lo Stato, la cui potenza d’altra parte riposava interamente sulla capacità industriale, e quindi finanziaria, scientifica, organizzativa, culturale, in una sola parola sistemica, del Paese. Come notò J.A. Hobson nella sua giustamente celebre opera del 1902, l’imperialismo «implica l’uso della macchina di governo da parte degli interessi privati, principalmente capitalistici, per assicurare loro vantaggi economici fuori del proprio paese». Sempre all’acume critico dello studioso inglese dobbiamo la documentata relazione tra investimenti esteri e imperialismo politico (militarismo incluso): «Le statistiche degli investimenti all’estero gettano una chiara luce sulle forze economiche che dominano la nostra politica [...] non è esagerato dire che la politica estera moderna della Gran Bretagna si è concretizzata in una lotta per accaparrarsi profittevoli mercati d’investimento»

C’è una pagina di quell’importante studio, dedicata agli gnomi della finanza del suo tempo, che sembra scritta oggi: «Come speculatori o finanzieri essi costituiscono il più grave fattore specifico dell’economia dell’imperialismo. Creare nuovi debiti pubblici, lanciare nuove società, provocare notevoli fluttuazioni del valore dei titoli sono tre condizioni necessarie per svolgere la loro profittevole attività. Ciascuna di queste condizioni li spinge verso la politica, 
e li getta dalla parte dell’imperialismo».

È forse mutata la base del «nuovo imperialismo», al punto da determinarne il tramonto, o quantomeno la sua trasformazione nell’Impero concettualizzato da Negri? A me non pare proprio, e soprattutto quanto ci capita di osservare negli ultimi anni mi suggerisce l’idea che lungi dall’essersi indebolita, la radice sociale dell’imperialismo si è piuttosto rafforzata enormemente. Concetti quali «post imperialismo» e «post Capitalismo» non hanno alcun senso e testimoniano l’incapacità, di chi li teorizza, di afferrare l’essenza della vigente formazione storico-sociale, la quale vive necessariamente una permanente condizione transeunte: il cambiamento, per essa, non è un’eccezione, ma la regola. Di più: un imperativo categorico. 

La società capitalistica è sempre «post», «oltre», «smisurata»: deve esserlo, con assoluta e “demoniaca” necessità. Si tratta di mettere a nudo il momento di continuità che persiste nel processo e che realizza la continua trasformazione della Società-Mondo dominata dal rapporto sociale capitalistico. Sul piano della politica mondiale Negri compie la stessa operazione “astrattiva”, ideologica più che metafisica, che ormai da quarant’anni caratterizza la sua analisi della politica nazionale in rapporto al processo di valorizzazione del capitale. Egli osserva talmente da vicino le tendenze storiche, da precipitarvi dentro, diventando una cosa sola con il suo oggetto. La sua analisi risulta in questo modo priva di quelle mediazioni concettuali necessarie a cogliere la reale dimensione e la reale natura della tendenza, il suo rapporto con i processi reali che a volte la contraddicono, a volte la confermano, in una incessante dialettica. 

Ed è proprio questa mediazione reale e concettuale il punto nodale da cui muovere, la realtà concreta in un’accezione non volgarmente empirica. Per dirla in breve e più chiaramente, Negri non coglie in tutta la sua portata e radicalità lo scontro sistemico tra le potenze imperialistiche e tra le macro aree capitalistiche (Europa, America, Asia). Proprio oggi gli avvinazzati del «sogno europeo» scoprono con sgomento che, come ha scritto poche settimane fa il Wall Street Journal, «dietro la solidarietà europea si nascondevano gli interessi delle nazioni europee»

Tutti parlano e scrivono di «ritorno dei particolarismi nazionali», di «ritorno della politica di potenza» anche in Europa, soprattutto in riferimento al nuovo ruolo egemonico della Germania e all’operazione franco-inglese in Libia. Per non parlare delle scosse telluriche che si registrano con sempre più frequenza e maggiore intensità nella «faglia del Pacifico», dove orbitano le più grandi potenze capitalistiche del pianeta. Nessun «ritorno»: è la storia del Capitalismo che continua, una storia sempre «vecchia» eppure sempre «nuova», perché i rapporti di forza interimperialistici mutano sempre di nuovo, in intima relazione con i processi di ascesa e di declino economico delle Nazioni e delle macro aree geoeconomiche.


L’ideologia antiamericana di matrice stalinista e maoista, negli anni successivi alla seconda guerra mondiale e fino a qualche anno fa, impedì a gran parte dei “marxisti” occidentali di vedere, dietro l’esibita compattezza dell’Alleanza imperialistica centrata sugli Stati Uniti, i conflitti di natura economica, politica e strategica tra i diversi Paesi “fratelli”, con tutto ciò che ne seguì sul piano della loro – cattiva – prassi politica «antimperialista». Il rapporto tra Stati Uniti e alleati veniva da essi ricondotto nel risibile schemino di Padrone e «servi sciocchi», con ciò misconoscendo la reale dialettica che ha plasmato quel rapporto, peraltro oggi sempre più sfilacciato, debole e contraddittorio.

Pur non essendo un volgare antiamericano, Negri è concettualmente assai vicino a quel tipo di impostazione dei problemi internazionali: la figura dell’Impero, infatti, gli preclude di cogliere la ricca e complessa dialettica che struttura la politica internazionale degli Stati, peraltro da egli concepiti come entità in via di estinzione. «Oggi noi viviamo certo un interregno, fra la fine della modernità e l’apertura della postmodernità, fra l’estinzione dello Stato-nazione e la fondazione dell’Impero. Mille contraddizioni attraversano questo periodo e nessuno può opporre Stato-nazione e Impero come se si trattasse di figure opposte per natura. Nell’interregno, il capitale gioca piuttosto la compenetrazione di queste due figure e talora si illude sull’evoluzione dell’una nell’altra: la dialettica per il capitale funziona sempre, e così all’affermazione dello Stato-nazione segue la negazione dell’interregno, poi la sua necessaria sublimazione nell’Impero»

A mio avviso la realtà mostra una dialettica assai diversa, e il concetto di Impero è, a mio avviso, destinato a fare la stessa fine del Superimperialismo teorizzato negli anni Venti da intellettuali di diverse tendenze politiche e culturali. Da buon «materialista dialettico», Negri fonda la sua teoria dell’estinzione dello Stato-Nazione, «sublimato nell’Impero», sulla prassi economica del Capitalismo del XXI secolo, ossia de «postCapitalismo», di un Capitalismo che, a quanto pare, è andato «oltre Marx». «La legge del valore (e dunque del plusvalore), considerata secondo la definizione elementare che ne dà Marx, è divenuta inefficace salvo, forse, in settori marginali dello sviluppo. Lo sfruttamento si configura come espropriazione dei valori della cooperazione e della circolazione produttiva, come appropriazione capitalista dell’eccedenza innovatrice del lavoro immateriale nell’organizzazione sociale del lavoro, come captazione del comune».

Suona bene, non c’è che dire. Ma si tratta, appunto, di suoni, che alludono bensì a una realtà concreta, come del resto i sogni e qualsivoglia costruzione intellettuale per quanto fantasiosa; senza però riuscire mai a toccarla. Voglio prenderla, per così dire, alla larga, con ciò testimoniando la coerenza di pensiero di Negri, il quale batte il chiodo, invero storto e spuntato, del superamento della marxiana legge del valore da molti lustri.

In un suo breve saggio del 1974, Crisi dello Stato-piano, Negri cita un importante passo di Marx: «Nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti degli agenti che vengono messi in moto durante il tempo di lavoro, e che a sua volta – questa loro powerful effectiveness – non è minimamente in rapporto al tempo di lavoro immediato che costa alla produzione, ma dipende invece dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia o dall’applicazione di questa scienza 
alla  produzione».


Qui Marx delinea il fondamentale concetto di lavoro sociale astratto, mediante il quale spiega il passaggio del Capitalismo dalla precedente fase manifatturiera («sussunzione formale del lavoro sotto il Capitale») alla sua piena maturità, con l’introduzione di criteri e di mezzi altamente razionali (scientifici) e tecnologicamente avanzati nel processo di creazione del valore – perché le merci, bisogna sempre ricordarlo, sono meri contenitori di valore che attende di essere realizzato sul mercato. A questa altezza dello sviluppo capitalistico il prezzo della merce non dipende dal lavoro peculiare che l’ha immediatamente prodotta, ma dalla media sociale dei singoli e particolari lavori che in altre fabbriche e in altre parti del mondo producono quel tipo di «crisalide di valore», quel valore di scambio che agogna il «salto mortale» della compra-vendita 
per manifestarsi come denaro. 

È appunto il lavoro sociale astratto la base oggettiva che rende possibile l’esistenza del denaro in quanto «equivalente universale», la cui enigmatica natura è fonte di continue aberrazioni feticistiche. Ed è a questa altezza che prende corpo il fenomeno per cui il Capitale più produttivo, quello a più alta «composizione organica», ossia incardinato su una base tecnologico-scientifica assai sviluppata, drena una parte del plusvalore smunto alla capacità lavorativa sfruttata da un Capitale relativamente meno produttivo, a più bassa «composizione organica». Il Capitale a più alta «composizione organica» sfrutta dunque anche il concorrente relativamente più arretrato sul piano della strumentazione tecnica e dell’organizzazione del lavoro. Detto di passata, storicamente la formazione del moderno Sistema Finanziario è radicata nel processo qui appena abbozzato: infatti, l’alta produttività del lavoro 

1) ha liberato risorse finanziarie in precedenza vincolate direttamente alla sfera produttiva; 

2) ha costretto le imprese a ricorrere sempre più spesso ai capitali messi a disposizione dalla Finanza – la tecnologia e la scienza, come sappiamo, hanno un elevato costo –, rafforzandone la potenza di fuoco (l’allusione all’imperialismo è voluta) e la tendenza all’autonomizzazione (base materiale di ogni feticismo passato, presente e futuro); 

3) la sfera finanziaria si è presto dimostrata una sorta di attrazione fatale per i capitali desiderosi di grassi e facili profitti. 

Come Marx ha dimostrato nel Terzo libro del Capitale, l’alta composizione tecnologica dell’impresa industriale ha sul saggio del profitto, ossia sul rendimento del capitale investito nella produzione, effetti assai contraddittori sul processo di accumulazione, e non di rado tali da spingere il Capitale a battere le vie dell’imperialismo (investimenti diretti e indiretti all’estero) e della speculazione finanziaria. Ma non spingiamoci oltre.

Se diamo a questa complessa dialettica capitalistica una dimensione
mondiale, come ci obbliga a fare la realtà, illuminiamo da un’essenziale – radicale – prospettiva la prassi e il concetto di imperialismo. Ecco perché l’odierna bagarre intorno al debito sovrano, al Welfare, al mercato del lavoro, alla spesa pubblica improduttiva e via discorrendo è connessa intimamente a quella prassi e a quel concetto. Infatti, si tratta di rendere più produttivo il Sistema-Paese nel suo complesso, con tutte le conseguenze sociali e politiche che necessariamente ne derivano. 

Che l’accumulazione capitalistica che io chiamo – con scarsa originalità, lo riconosco – primaria o originaria, ossia quella afferente al settore industriale (agricoltura compresa, ovviamente), stia alla base della cornucopia finanziaria che tante teste metafisiche ha fatto girare; come del cosiddetto Welfare allargato, è  stato dimostrato sul piano empirico dalla crisi economica, la quale da sempre ha avuto la funzione di accendere un potente fascio di luce sulla notte dove tutte le vacche sembrano nere. La svalutazione universale di tutti i valori, che la crisi realizza, oltre a costituire il processo di risanamento che rimette in carreggiata il treno dell’accumulazione, rappresenta un’eccezionale occasione di crescita teorica e politica, per chi riesce a coglierla.

Ma vediamo adesso il commento di Negri alla precedente citazione
marxiana: «Se dunque lo scambio di forza lavoro non è più qualcosa che avvenga – con determinazioni quantitative e con specifiche qualità – all’interno del processo di capitale, se invece un interscambio di attività, determinate da bisogni e scopi sociali, è il presupposto stesso della produzione sociale e la socialità è la base della produzione, se infine il lavoro del singolo è posto fin dal principio come lavoro sociale, il prodotto stesso del lavoro complessivo non può essere rappresentato come valore di scambio. [...] Lavorare è già una partecipazione immediata al mondo della ricchezza. [...] Il contenuto di massa del progetto dell’organizzazione operaia, nella misura stessa in cui si estende all’intera figura del lavoro astratto, si determina attorno al programma dell’appropriazione sociale diretta della ricchezza sociale prodotta».

Negri ha sempre amato vedere realizzate le tendenze che alludono alla possibilità del Comunismo hic et nunc, nell’ambito dello stesso  Capitalismo, e questo peraltro comprensibile desiderio, che spiega il successo della sua infondata posizione in non ristrette cerchie di giovani politicizzati, gli impedisce di comprendere che quelle stesse tendenze oggettive si risolvono, hic et nunc, in un continuo processo di radicamento e di espansione del dominio sociale capitalistico.

 La mia tesi è che, invece, non esiste alcun «Comune», perché tutto quello che esiste sotto il vasto cielo della società capitalistica mondiale (o «globale») appartiene con Diritto – ossia con forza, con violenza – al Capitale, privato o pubblico che sia. 

Il Capitale non si appropria arbitrariamente «il Comune», non lo «privatizza», ma estende piuttosto continuamente la sua capacità di trasformare uomini e cose in altrettante occasioni di profitto, e può farlo perché l’intero spazio sociale gli appartiene, è una sua creatura, una sua naturale riserva di caccia. Il lavoro (quello «materiale» e quello «immateriale», quello produttivo di plusvalore originario e quello produttivo di solo profitto, nelle sue diverse figure), la scienza, la tecnologia, l’arte, la cultura e la stessa natura hanno, nel nostro tempo, un’essenza necessariamente capitalistica, cioè a dire al contempo essi esprimono 
e riproducono sempre di nuovo 
il rapporto sociale dominante in questa epoca storica.

La crisi economica ha dimostrato come alla base del Sistema Finanziario Internazionale (speculazione compresa) e della Finanza  Sovrana (quella che rende possibile il Welfare e tutte le prassi finanziate dallo Stato attraverso il drenaggio fiscale), ci sia la
produzione del plusvalore estorto ai lavoratori sfruttati nella cosiddetta «economia reale». Proprio «l’analisi marxiana della rendita fondiaria e le pagine sull’estrazione di plusvalore nell’industria dei trasporti» cui rimanda Negri, spiegano perché solo nel processo di produzione industriale si ha la generazione del plusvalore originario, o primario, il quale sta alla base di ogni forma di plusvalore derivato o secondario, chiamato da Marx profitto, rendita, interesse, e così via. 

Ciò spiega perché, tra l’altro, tutti gli strati sociali che a diverso titolo campano di plusvalore hanno interesse a che il salario dei lavoratori industriali sia e rimanga basso e la loro produttività cresca continuamente. Sta qui, per un verso il vero limite storico insuperabile del Capitale, la cui smisurata e insaziabile fame di profitti deve misurarsi con quella miserabile base di valore, occultata in tempi di vacche grasse dalla Chimera speculativa e che la crisi, mandando per aria il gigantesco castello fatto di valori fittizi, mette a nudo; e per altro verso la maledizione del lavoro salariato.


Ancora nel XXI secolo la marxiana legge del valore, lungi dall’essere stata superata o messa ai margini dal processo di creazione della ricchezza sociale nella sua forma capitalistica, costituisce, a mio avviso, il solido punto di partenza – non necessariamente di arrivo – di chi voglia elaborare un punto di vista critico sulla vigente società.

Cambiando il moltissimo che c’è da cambiare, il tentativo negriano di vedere limiti oggettivi insuperabili nel processo di sviluppo del Capitalismo mi ricorda Rosa Luxemburg, la quale, nel tentativo di dimostrare l’infondatezza della politica riformista dei vari Bernsteins’inventò la teoria secondo la quale il Capitalismo, per sopravvivere, ha bisogno di aree non capitalistiche nelle quali realizzare il plusvalore prodotto nelle metropoli dell’Impero. Appena il pianeta fosse caduto interamente nelle spire del Capitalismo, il catastrofico crollo di quest’ultimo si sarebbe realizzato con assoluta necessità, per l’impossibilità di realizzare il plusvalore. L’ottimismo riformista, dunque, non aveva alcun fondamento. Cosa assai significativa, la Luxemburg attribuì a Marx l’errore capitale di ritenere sempre possibile la realizzazione del plusvalore nell’ambito dei paesi capitalisticamente avanzati (vedi L’accumulazione del capitale), più diverse e fondamentali magagne nella spiegazione dell’accumulazione capitalistica. 

Anche per Rosa i marxisti sarebbero dovuti andare «oltre Marx». E non ci vedo nulla di male, in questa perorazione, anzi! A patto che mi si offra una teoria superiore! Per una puntuale critica dell’Accumulazione luxemburghiana rimando a Il crollo del
Capitalismo di Henrik GrossmannGran parte degli errori teorici di Negri si spiegano con il suo tentativo di colpire quello che negli anni Settanta egli definiva «il movimento operaio ufficiale» (il PCI di Togliatti-Longo-Berlinguerla CGIL di Lama), concepito, erroneamente, come espressione della vecchia composizione di classe, fordista e keynesiana, superata dal Capitalismo «postmoderno», e non come movimento politico-sociale borghese tout court. La teorizzazione della «Moltitudine» di oggi ha molto a che fare con la teorizzazione dell’«operaio sociale» di ieri. 

Che cosa resta di Negri dopo l’avvento della crisi capitalistica mondiale? Le sue suggestioni teoretiche e, soprattutto, i suoi fondamentali errori teorici e politici. Solo se si afferra la dialettica del processo capitalistico nel suo reale movimento, senza proiettarvi sopra i nostri desideri, è possibile fare il punto politico e sociale della situazione, per elaborare una teoria-prassi all’altezza dei tempi, i quali, occorre riconoscerlo, attestano la tragica impotenza delle classi subalterne in ogni latitudine del pianeta. 

Non è coltivando l’«ottimismo della rivoluzione», che crea l’illusione di «Moltitudini» sempre all’attacco, sempre sul punto di afferrare il potere (o quantomeno di «appropriarsi direttamente della ricchezza sociale prodotta»), che il pensiero critico può sperare di intercettare la dialettica del reale, ossia la tensione sempre crescente tra attualità e possibilità, presente e futuro.






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