uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

sabato 19 settembre 2015

Robbie Basho. L'incanto della voce.


Ad un amico luminoso, incontrato per caso.

Ti ho conosciuto tardi, poeta, quando già 
a metà del cammino della vita,
sento scivolare dalle mie mani
palpito su palpito, triste, il tempo.

Mi arriva il tuo profumo, 
lontano da terre e da giardini
dove ha camminato il tuo cuore vagabondo.  (Rafael Alberti)


Robbie Basho è una figura di culto nel mondo degli appassionati della chitarra acustica e del fingerpicking. Uomo discreto e silenzioso, poco incline alla notorietà e alla teatralità del mondo musicale è stato un acuto e intelligente sperimentatore per sola chitarra riuscendo a coniare una etno-musica spiritualista che assimila musica bianca, musica nera, musica latina (flamenco) e musica orientale (indiana, persiana, giapponese).




Basho nasce a Baltimora nel Marryland nel 1940 e diventa ben presto orfano, viene adottato da Donald R. Robinson e consorte e cresce come Daniel R. Robinson in una tipica cornice middle class americana. Inizia la sua avventura musicale dopo aver comprato un vecchia 12 corde da un marinaio per 200 dollari. Viaggia molto, diventa un beatnick e inizia a scrivere le sue poesie e a occuparsi di zen e letteratura giapponese, ed è proprio in seguito alla scoperta di Matsuo Basho, forse il più celebre poeta di haiku giapponese, che muta il proprio nome in Robbie Basho, ora musicista.
Incontra John Fahey nei primi anni 60 che lo introdurrà alla steel string, mentre Max Ochs lo aiuterà a  scoprire il folk. Nel 1962 la vera svolta radicale dopo aver assistito ad un concerto di Ravi Shankar: Basho iniziaa un percorso quasi iniziatico e febbrile, va a caccia dei dischi di Shankar e li ascolta per ore, smette di suonare blues e protest songs per studiare i raga, applicandone gli insegnamenti sulla chitarra attraverso l’uso di accordature aperte, intonazioni particolari e già parla di “esoteric doctrine of color& mood” o di “zen buddist cowboy songs”.

In ogni caso si fa riconoscere come una one man band con le steel a 6 e 12 corde, diventa discepolo di Meher Baba e sarà in queste ocasioni che incontrerà e studierà con Ali Akbar Khan, maestro di sarod e influente quanto lo stesso Shankar. Tra il 1965 e il 1971 inciderà i suoi albums più importanti per la Takoma di John Fahey con la sola parentesi di Venus in Cancer uscito su Blue Tumb nel 1970 e ristampato di recente. Se i primi dischi come The seal of the blue lotus e The Grail and the lotus sono dischi con un sapore ancora acerbo e ruvido, pur celando una selvaggia bellezza, è a partire dai due volumi di Falconer’s Arm e Venus in Cancer fino al capolavoro di Song of the stallion che la poetica di Basho assume un carattere sempre più intenso e torrenziale.
La sua musica, magica combinazione di vecchia america fatta di blues, folk e country con scale modali arabe, persiane, indiane non ha eguali ancora oggi, mentre il suo canto tenorile sarà un elemento singolare che qualcuno mal sopporterà. La sua musica entrerà in una certa classicità con Voice of the eagle e Zarthus del 72 e 74 incisi per la Vanguard mentre passeranno 4 anni prima che la Windham Hill pubblichi Vision of the country e Art of acoustic guitar 6 & 12 l’anno dopo.




Dopo Rainbow thunder (songs of the american west) uscita per la minuscola casa discografica Silver Label nel 1981 Basho faticherà a trovare nuove case discografiche interessate alle sue musiche tanto che gli ultimi dischi Bouquet e Twilight peaks saranno delle semplici autoproduzioni su cassetta. Nel giro di un paio di anni si ammala gravemente di cancro, fino alla sua morte avvenuta nel 1986 a 45 anni, 
ufficialmente per la malattia.

Come Fahey, Basho applica un principio caleidoscopico alla propria ricerca creativa, assimilando musica classica europea, musica indiana, giapponese, cinese, medio-orientale, spagnola, forme folk americane, blues, cajun, cercando di tradurre poi il tutto in un proprio stile e in una propria forma poetica e musicale. E’ naturalmente impossibile e antitetico alla sua stessa essenza, poter racchiudere il senso della musica orientale in una definizione di poche righe, Basho metabolizza la musica indiana in modi diversi, talvolta con specifiche forme tecnico-armoniche derivate da strumenti indiani come il sitar o il veena, con l’uso del bordone e delle accordature modali, altre volte traendo dall'essenza del Raga un atteggiamento di estrema spontaneità nella creazione e nell'esecuzione, l'improvvisazione concepita come il mezzo per interpretare ogni volta in modo differente uno stesso 'mood' musicale.

Altro fattore interessante è il tentativo di combinare le infinite variazioni ritmiche e melodiche della musica Hindu con parti più strutturate armonicamente, costruendo progressivamente uno stile strumentale ed una tecnica chitarristica propri: l'uso dei bassi alternati tipici degli stili tradizionali americani si combina con arpeggi più propriamente classici o flamenco, tecniche che vengono alternate ed evolute
sempre in funzione del risultato più specificamente musicale.
Il suo obiettivo era di creare una musica classica per la "steel string guitar" e se il suo intento è rimasto largamente velleitario, è comunque servito a creare i presupposti 
per una maggior consapevolezza nella generazione successiva di chitarristi

Dimenticato per diverso tempo il nome di Basho è tornato in questi ultimi anni sull’onda di una nuova generazione di chitarristi folk e fingerpicking che hanno preso a modello la sua musica e le sue idee, riproponendo interesse attorno alla sua figura. Nomi come Steffen Basho Junghans, Jack Rose, Glenn Jones e James Blackshaws hanno più volte sia nei loro stessi dischi che nelle interviste sancito il loro debito 
culturale e musicale con Basho.





 Vision of the Country


«La campana del tempio tace
ma il suono continua ad uscire
dai fiori». (Matsuo Basho)



Il manico della chitarra di Robbie Basho è quel metafisico ponte che collega il Nord America con l'Estremo Oriente. Ogni composizione che ne scaturisce appare iniziatica, occulta, eppure inesplicabilmente ammaliante, intrisa di un fascino atavico. Il suo stesso nome rappresenta di fatto il felice dualismo che caratterizza la sua carriera discografica: Robert, comunissimo nei paesi occidentali; Basho, evidente rimando al celeberrimo compositore di haiku, adottato per il suo interesse nei confronti delle culture orientali. Tale cognome lo aiutò probabilmente a ritrovare un'identità che sentiva smarrita
 fin dall'infanzia, quando rimase orfano.

Basho morì nel 1986, a soli quarantacinque anni, per un caso di malasanità. L'eredità lasciata alla musica era notevole, ed ha continuato ad influenzare generazioni di chitarristi acustici (Jack Rose e James Blackshaw in primis). Il suo catalogo discografico non gode tuttavia della cura che meriterebbe, giacché ben poche delle sue opere hanno visto la ristampa in CD. Cristallizzare la testimonianza di un artista tanto poliedrico equivale inequivocabilmente a compiere un crimine: un caso eclatante è la magistrale "The Thousand Incarnations of the Rose", contenuta in "Contemporary Guitar" (pubblicato nel 1967 e mai ristampato in CD), vero e proprio manifesto del chitarrismo primitivista firmato dai suoi principali esponenti, quali John Fahey, Max Ochs, Bukka White,  e Basho stesso.




Il disco qui preso in analisi consiste, utilizzando le parole dell'artista stesso, in "affreschi raffiguranti l'America ed altre gioie". È una rappresentazione esoterica dell'America rurale, lontana dallo spettro dell'urbanizzazione. Sui paesaggi delle Montagne Rocciose, dei fiumi e delle grandi vallate fanno capolino fiori di loto e gigli: il country si amalgama al raga, dando vita a lunghi flussi di coscienza sonori. Prima d'essere definito musicista, Basho dovrebbe essere prima di tutto considerato un alchimista; allontanandosi in parte dalle lunghe digressioni chitarristiche del suo periodo Takoma (etichetta discografica di John Fahey), egli si cimenta in un melodismo ancestrale, tipico della tradizioni orientali.

Se così non mancano ottimi esercizi di stile country ("Rodeo" e "Variations on Easter"), sono le composizioni più estese che delineano l'ossatura dell'opera, da "Green River Suite" a "Rocky Mountain Raga", in cui spicca la voce baritonale di Basho, pastorale ed evocativa. È però con "Blue Crystal Fire" che il suo cantato giunge all'eccellenza, rendendo una poetica ballata folk ancor più malinconica ("dolci e sorridenti raggi di luna / siate la mia rapsodia"). Tale malinconia si tramuta in angoscia autobiografica in "Orphan's Lament", caratterizzata stavolta da un catartico piano, presente anche in "Leaf in the Wind", in cui persino un semplice fischio riesce a sublimare un momento di straordinaria bellezza. La conclusione viene affidata alla contemplazione del cielo notturno ("Night Sky") e ad un'ulteriore ode alle bellezze naturali americane ("Call on the Wind"). Si denota immediatamente uno straordinario panismo, un senso di congiunzione con la natura genuino
 e difficilmente rintracciabile altrove.
"Vision of the Country", uscito nel 1978, è stato rimasterizzato e ripubblicato in CD dalla Grass-Top Recordings. Esso non presuppone un impegno particolare nell'ascolto, che viene da sè in una dimensione estremamente intimistica che abolisce ed aborrisce il virtuosismo fine a sè stesso: citando lo stesso Basho, "prima l'anima, poi la tecnica".


Per chi volesse approfondire: qui trovate il sito, molto bello, in inglese, dedicato a Robbie Basho. Inoltre qui, qui, qui e qui trovate alcuni articoli su Robbie. Qui la nota di Scaruffi, qui il trailer del film Voice of the Eagle: The Enigma of Robbie Basho. Qui la discografia. Per finire qui alcuni file musicali.








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