uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

sabato 5 settembre 2015

Per un programma ecosocialista

Di Daniel Tanuro 

da communianet.org

 



Di fronte all’urgenza ecologica: progetto di società, programma, strategia

In Aprile, due equipe differenti di glaciologi statunitensi specialisti dell’Antartide sono arrivati – con metodi diversi, basati sull’osservazione - alla stessa conclusione: rispetto al riscaldamento climatico globale, una porzione della calotta glaciale ha cominciato a sciogliersi e questo scioglimento è irreversibile.Anche se gli scienziati sono riluttanti a considerare le loro proiezioni certe al 100%, sono stati comunque categorici: “il punto di non ritorno è superato" hanno dichiarato nel corso di una conferenza stampa congiunta. Secondo loro, nulla può impedire un aumento del livello degli oceani di 1,2 metri nei prossimi 3-400 anni. Stimano sia molto probabile che il fenomeno porti alla destabilizzazione accelerata della zona adiacente, ciò che potrebbe causare un aumento supplementare del livello degli oceani di più di 3 metri. 

La catastrofe silenziosa è in marcia


Le conseguenze sociali dell’aumento del livello degli oceani di una tale ampiezza non possono sfuggire a nessuno. Basta ricordare che 10 milioni di egiziani vivono ad un'altitudine inferiore al metro slm - così come 15 milioni di bengalesi, una trentina di milioni di cinesi e indiani, venti milioni di vietnamiti… senza contare tutte le grandi città costruite nelle zone costiere :Londra, New York, San Francisco…

Si possono costruire certamente delle dighe di un metro di altezza – a condizione di averne i mezzi finanziari e tecnologici. Ma non si posso costruire dighe di dieci metri di altezza. E anche se si potesse, poca gente accetterebbe di vivere dietro di esse.Ora, per capire la portata della minaccia, bisogna sapere che lo scioglimento della calotta antartica non è che una delle quattro cause di aumento del livello degli oceani; le altre tre sono: la dilatazione termica delle masse di acqua, lo scioglimento dei ghiacciai de montagna e quello della calotta della Groenlandia. Se la quantità di ghiaccio accumulato sulle terre emerse dovesse sciogliersi totalmente, ne seguirebbe un aumento del livello del mare di più di 90 metri.

Uno degli autori responsabili del capitolo "innalzamento del livello del mare" del quarto rapporto GIEC, Anders Leverman, ha tentato di unificare le proiezioni di aumento che i modelli imputano a queste quattro cause. La sua conclusione è inquietante: a ogni grado Celsius di aumento della temperatura media della superficie rispetto alla fine del 18°secolo corrisponderebbe un aumento del livello degli oceani di 1,3 metri, al punto d’equilibrio. La differenza di temperatura rispetto al periodo di riferimento è attualmente di + 0,84°C. Se Levermann ha ragione, un aumento di 1,84 m al punto di equilibrio è fin d’ora già inevitabile.

Fatih Birol, “capo economista” in seno all’Agenzia Internazionale dell’Energia, non è né un bolscevico né un ecosocialista. Ha ammesso recentementeche la tendenza attuale in materia di emissioni di gas a effetto serra è perfettamente coerente con un riscaldamento di 6°C da qui alla fine del secolo,  potendo arrivare fino a 11°C.
Nell’ipotesi in cui le conclusioni di Leverman fossero esatte, noi staremmo per creare le condizioni di un aumento del livello dei mari di 13,8 m o più. Questa è una delle ragioni per le quali nessun adattamento ad un riscaldamento di questa ampiezza è possibile in un mondo di 9 miliardi di abitanti (4).In queste proiezioni, l’espressione “al punto d’equilibrio” significa questo: il momento in cui un nuovo punto di equilibrio sarà raggiunto tra la temperatura media di superficie e la quantità di ghiaccio presente sul globo. Concretamente, questo ritorno all’equilibrio energetico del sistema Terra dovrebbe compiersi tra i mille e i duemila anni circa.

Da mille a 2 mila anni, è un tempo lungo. Ma il punto importante è che il processo, una volta avviato, non può essere fermato: a una concentrazione atmosferica X di gas a effetto serra corrisponderà inevitabilmente un aumento Y della temperatura, la quale porterà inevitabilmente una dilatazione Z delle masse di acqua e la fusione di una quantità Z' di ghiaccio che, trasformato in acqua, ingrosserà i mari.
Il solo modo di fermare questo concatenamento di cause ed effetti dovrebbe essere quello di mettere il pianeta in congelatore. Una specie di congelatore naturale esiste, sono le glaciazioni. Ma le glaciazioni non si attivano evidentemente per comando. Gli astrofisici pensano che la prossima interverrà al più presto fra 30.000 anni.



Finora non ho richiamato che l’impatto del riscaldamento sull’aumento del livello degli oceani, che presenta un’immagine impressionante del terribile pericolo – irreversibile su tempi in scala umana –che si accumula in silenzio sulle nostre teste. Ma questa non è, come sapete, che una delle conseguenze dei cambiamenti climatici. Mi limito a citarne rapidamente altre, che sono più minacciose a breve termine, dello stesso innalzamento delle acque e di queste alcune sono già percepibili:

la diminuzione della produzione agricola. Con un riscaldamento globale di 3°C rispetto al 18° secolo si stima che la produttività globale aumenterà. Ma, fin d’ora, diminuisce in alcune regioni tropicali, in particolare nell’Africa sub sahariana;
gli eventi meteorologici estremi. Se questo campo giovani fosse cominciato due settimane prima sareste capitati qui in piena canicola, con temperature superiori a 35°C per più di una settimana; quello che era un tempo eccezionale in queste regioni ora tende a verificarsi sempre più spesso;
le conseguenze sulla salute. Se ricomincia a fare bello e decidete di riposare nel sottobosco, diffidate delle zecche. Questi acari portatori della malattia di Lyme sono molto più numerose di prima, perché gli inverni sono sempre più dolci. Nelle regioni subtropicali, l’estensione della zona propizia allo sviluppo della malaria è fin d’ora e già un serio problema sanitario.


Un deterioramento accelerato di tutti i parametri ecologici

Allo stesso tempo il cambiamento climatico non è che una manifestazione tra le altre di un deterioramento accelerato dell’ambiente. Si parla a questo riguardo di “crisi ecologica”. Spiegherò più avanti perché questa espressione è, a mio parere, impropria. Limitiamoci per adesso di dire che la “crisi ecologica” è composta da diverse facce. 
Le principali sono le seguenti:
l’acidificazione degli oceani - costituisce una minaccia seria per numerosi organismi marini il cui scheletro esterno in carbonato di calcio non resisterebbe 
ad una acidità troppo elevata;
* il declino della biodiversità – conosciamo attualmente ciò che i biologi chiamano “ sesta onda di estinzione” del vivente, ed essa è più rapida della precedente, che corrisponde alla scomparsa dei dinosauri, sessanta milioni di anni fa;
* lo sconvolgimento dei cicli dell’azoto e del fosforo – potrebbe provocare un fenomeno poco conosciuto di morte improvvisa, che sembra già essersi prodotto naturalmente nella storia della terra;
la distruzione dello strato di ozono stratosferico – che ci protegge dai raggi ultravioletti- è il solo dossier ambientale sul quale dei punti in positivo sono stati segnalati, su cui tornerò più avanti;
il degrado e il supersfruttamento delle riserve d'acqua 
attualmente, il 25% dei corsi d’acqua non arriva al mare a causa degli eccessivi prelievi, in particolare per l’agricoltura irrigua.
l’avvelenamento chimico della biosfera - in un secolo, l’industria chimica ha creato centomila molecole che non esistono in natura e di cui un certo numero - chiaramente dei composti tossici- non possono essere decomposti con agenti naturali;
la distruzione dei suoli e la perdita delle terre arabili.

Tutti questi fenomeni sono interconnessi e il cambiamento climatico occupa un posto centrale. L’acidificazione degli oceani, per esempio, comporta concentrazioni atmosferiche crescenti in biossido di carbonio, che nello stesso tempo è il principale gas a effetto serra.Il declino delle biodiversità è ugualmente dovuto in parte al riscaldamento, ed è talmente rapido che alcune specie non riescono a salvarsi con la migrazione. Soprattutto, tutti questi fenomeni hanno in comune che la loro appresentazione grafica e data da curve simili, di tipo esponenziale – con , in tutti i casi, un’accelerazione netta dopo i “ trenta gloriosi"la curva delle concentrazioni atmosferiche di gas a effetto serra in funzione del tempo è un’esponenziale; la curva del numero di specie che spariscono in funzione del tempo è un’esponenziale; l’aumento dell’acidità degli oceani in funzione del tempo è un’esponenziale; la quantità di suoli distrutti è un’esponenziale; la quantità di fosfati e nitrati rigettati nei mari ugualmente: Il profilo comune di tutte queste curve indica molto chiaramente un’origine comune. La domanda che si pone e qual è?



Sì alla transizione demografica , no alla creazione di diversivi

A questa domanda, un movimento reazionario e misantropo, molto presente nei mezzi di comunicazione di massa, risponde puntando il dito contro la natura umana o la popolazione, o entrambe. La Terra sarebbe “ malata dell'umanità” come dice James Lovelock nella conclusione del suo saggio su Gaia. Come vuole il patriarcato, le donne sono il principale obiettivo di questi signori.

Dobbiamo essere molto decisi su questa questione. Va da sé che il numero di esseri umani sulla Terra è un elemento importante dell’equazione ambientale. Sarebbe stupido negarlo. Siamo favorevoli ad una stabilizzazione della popolazione – ciò che si chiama una transizione demografica. Ma stiamo molto attenti nei confronti di soluzioni autoritarie, neoliberali e barbare che l’ossessione demografica genera in alcune teste . Per esempio la proposta di d’instaurare dei “ diritti di procreare” intercambiabili,  sul modello dei “diritti di inquinamento”. La transizione demografica dipende fondamentalmente da due elementi, il diritto delle donne a controllare la propria fecondità ( compreso il diritto all’aborto gratuito e in condizioni di sicurezza) e una sicurezza sociale degna di questo nome (in particolare un sistema pensionistico che permetta alle persone anziane di vivere con dignità senza l’aiuto di numerosi figli).
Se si escludono le soluzioni barbariche – e bisogna evidentemente escluderle – la transizione demografica è un processo lento che non può rispondere all’urgenza ambientale. Ecco perché bisogna essere attenti, spesso, verso coloro che cercano una soluzione alla crisi ecologica dal punto di vista della popolazione, che vogliono creare un diversivo rispetto alle cause reali. Ora, non è perchè siamo troppo numerosi che il 50% del nutrimento prodotto a livello mondiale non finisce mai né nei nostri piatti né nei nostri frigo. 

Non è perchè siamo troppo numerosi che la parte che finisce nei nostri piatti o nei nostri frigo vi arriva dopo aver percorso migliaia di chilometri spesso inutili. 

Non è perchè siamo troppo numerosi che questa parte contiene sempre più carne, chiaramente carne di manzo, quando un’alimentazione con troppa carne è dannosa per la salute. 

Non è è perchè siamo numerosi che le ditte spendono delle fortune in pubblicità per far nascere in noi bisogni di consumo alienato, compensazione miserevole per la povertà delle relazioni umane in questa società.

Non è perchè siamo troppo numerosi che le imprese competono in ingegnosità affinché le loro merci si usino e si distruggano sempre più velocemente e non siano più riparabili. 

Non è perchè siamo troppo numerosi che gli stati spendono delle fortune e sprecano ingenti risorse in armamenti e in materiale di sorveglianza e sicurezza. 

Non è perchè siamo troppo numerosi, infine, che i decisori economici e politici, benché siano perfettamente informati dei pericoli, rifiutano dopo mezzo secolo di organizzare seriamente la transizione verso un sistema energetico basato esclusivamente sulle fonti rinnovabili, che bastano ampiamente a soddisfare tutti i bisogni energetici dell’umanità.


La doppia impasse del capitalismo

In verità, l’avete capito, la causa di tutti questi fenomeni non è né la popolazione, né la natura umana ma il capitalismo e la "natura" di questo modo di produzione contro natura. In verità, le curve esponenziali del degrado dell’ambiente non sono niente altro che la manifestazione della legge fondamentale del capitalismo: “sempre di più". Un capitalismo senza crescita è una contraddizione in termini. La spiegazione è semplice: in questo sistema basato sulla concorrenza per il profitto, ogni proprietario privato dei mezzi di produzione è costretto a cercare sempre di ridurre i suoi costi, chiaramente sostituendo i lavoratori con macchine che aumentino la produttività del lavoro. Questo vincolo è assolutamente imperativo. Colui che volesse non tenerne conto sarebbe immediatamente condannato alla morte economica.

Il capitalismo è quindi per essenza produttivista. Produce sempre più merci, il che implica di doversi appropriare e saccheggiare di sempre più risorse naturali, di sfruttare maggiormente la forza di lavoro (sia direttamente nella produzione che indirettamente nei servizi e nella riproduzione sociale) e di distruggere sempre più i saperi e le logiche alternative alla sua propria "logica" bulimica. In questa logica capitalista insensata, la “crisi ecologica” stessa non è percepita che come “una formidabile opportunità per nuovi mercati”. In questo modo la stampa economica mette in evidenza le possibilità del mercato delle fonti rinnovabili, del mercato dei diritti di inquinare, del mercato dell’agricoltura (pseudo) bio, ecc.. La globalità del problema scompare, così come la soluzione globale, inghiottita dalla fame di profitto dei singoli capitalisti.

E’ evidente che le pseudo soluzioni di questo “capitalismo verde” non risolveranno niente. Non sprecherei il mio tempo a spiegarlo. Come diceva Albert Einstein, non si risolve un problema con i mezzi che hanno causato il problema. Non si risolve la crisi ecologica con i meccanismi di mercato e il produttivismo che sono la causa della crisi ecologica. A tale proposito, fate attenzione, come ho ricordato, che il solo aspetto della crisi ecologica rispetto al quale la dinamica esponenziale della distruzione è stata cancellata è la scomparsa dello strato di ozono. Le emissioni di gas responsabili del fenomeno sono infatti diminuite in maniera evidente dopo il protocollo di Monreal (1987). 

Ora, è proprio l'unico campo nel quale i governi (per una serie di ragioni molto particolari che non approfondirò qui) hanno fatto ricorso a misure di regolazione piuttosto che a meccanismi di mercatoLa conclusione salta agli occhi: non è la natura che è in crisi, è la società capitalista. Siamo arrivati ad uno stadio dove l’assurdità di questo modo di produzione sconvolge in maniera grave le relazioni tra l’umanità e la natura di cui fa parte, al punto da mettere di fronte a minacce mortali buona parte del genere umano.
E per questa ragione che non amo l’espressione “crisi ecologica”Il termine “crisi” è d’altra parte scorretto. Una crisi è un momento di transizione tra due stati di un sistema. 

A mio avviso, non si può parlare di “crisi” per descrivere l’insieme dei fenomeni esponenziali di degrado dell’ambiente che ho ricordato e che si amplificano da due secoli. Non è una “crisi” con cui noi abbiamo a che fare ma un a doppia impasse del capitalismo, sia sul piano ambientale che sul piano sociale (per farla breve, la caduta tendenziale del tasso di profitto e il modo in cui il capitale cerca di contrastarlo).
E’ sorprendente che, su questi due piani – sociale ed ambientale – il sistema inciampi in limiti che lui stesso non è capace di identificare. Ciò conferma l’analisi di Marx, secondo il quale " il solo limite del Capitale, è il Capitale stesso” e concludeva che questo Moloch, se non lo si elimina in tempo, esaurirà “ le sole fonti di ogni ricchezza: la terra ed i lavoratori”.




Lotta ecologica, lotta di classe

Questo approccio permette di inquadrare la lotta che vogliamo condurre. Non è una “lotta ecologica” nel senso di una sorta di lotta di lusso per quelle e quelli che non hanno troppi problemi sociali. E’ una lotta per salvare le condizioni di esistenza su questo pianeta, in particolare per il mondo del lavoro, le donne, i giovani, i contadini, i popoli indigeni - in breve gli/le sfruttati/e e gli oppressi/e che il capitalismo minaccia di sacrificare in massa. 

La lotta che dobbiamo condurre per l’ambiente è una lotta di classe, una lotta anticapitalista che racchiude, per così dire, tutte le altre lotte e che ha il potenziale di riunirle tutte. Una lotta la cui sorte deciderà della scelta tra un’umanità degna di questo nome – che prende con amore cura di se stessa e della natura di cui fa parte – o un caos barbarico fatto di distruzione sociale ed ambientale.

Questa lotta è allo stesso tempo poetica – è carica di emozioni e di passioni poiché si tratta di salvare l’incantesimo di questo mondo che fa di noi degli umani a tutto tondo – e profondamente razionale. Ma non facciamoci alcuna illusione: essa non sarà vinta né grazie alla poesia, né alla ragione, quale che sia la bellezza della prima ed il rigore della seconda. Considerata l’attualità delle ultime settimane, illustrerei questa affermazione con una parabola greca: cosa c’è in comune tra Yanis Varoufakis e le grandi associazioni ambientaliste? L’illusione di credere che drammi umani e argomenti ragionevoli, sostenuti da premi Nobel, possano convincere l’avversario che la sua politica è assurda, anche dal punto di vista dei suoi interessi capitalistici. Questa convinzione è in effetti illusoria. Non si tratta di stupidità o mancanza di informazioni dei "decisori", ma di interessi materiali.

Per salvare il clima, in primo luogo le compagnie petrolifere, gassifere e carbonifere, dovrebbero rinunciare a sfruttare i quattro quinti delle riserve di combustibile fossile di cui esse sono proprietarie e che determinano la loro quotazione in Borsa, e in secondo, la maggior parte del sistema energetico mondiale – che vale un quinto del PIL globale circa - dovrebbe essere rottamato prima di essere ammortizzato. Nei due casi, questa distruzione di capitale causerebbe un’enorme crisi finanziaria. Si può fare un altro paragone alla greca: che c’è di comune tra Shauble, Lagarde e i climato-scettici? Una determinazione di ferro a proteggere il loro sistema, quello della classe capitalista di cui fanno parte e che ha costruito l’essenziale della sua potenza negli ultimi due secoli sullo sfruttamento delle energie fossili.

Questo sistema, gli Schauble e i Lagarde di tutti i paesi sono pronti a mantenerlo al prezzo di immense distruzioni, del sacrificio di centinaia di milioni di essere umani, e allo stesso tempo facendo precipitare il mondo in un caos ingovernabile se non attraverso metodi che non avranno niente a che vedere con la cosiddetta “civilizzazione”, proprio per nulla. 

Quando il male sarà fatto, gli Shauble e i Lagarde verseranno lacrime di coccodrillo sulle vittime parlando di “catastrofe naturale”; perché queste persone, dovete sapere, pensano che le leggi del mercato siano leggi naturali, persino immodificabili quanto – se non di più - le leggi della fisica.

L’economista borghese Schumpter sosteneva che il capitalismo esce dalle sue crisi periodiche con la “distruzione creatrice"; ciò che Ernest Mandel chiamava “ il capitalismo della terza età” non può uscire dalla sua doppia impasse sociale ed ecologica se non con la “distruzione distruttrice"Si tratta di una lotta, quindi, non di un dibattito accademico e l’esempio della Grecia ci mostra in piccolo fino a che punto la lotta sarà impietosa.




Spiegare, bloccare, "comunizzare"(1)

“Che fare?”, come diceva qualcun altro… Che fare per limitare al massimo la catastrofe climatica?


La prima cosa da fare è quella di spiegare la gravità della situazione e delle sue cause senza mai stancarsi e in tutte le occasioni, in particolare nelle organizzazioni popolari, nel movimento sindacale, nei movimenti delle donne e in quelli giovanili. E' necessario un enorme lavoro di educazione permanente, al quale dobbiamo partecipare. Parlare è già agire, si tratta di gettare i semi della grande collera indispensabile.

La seconda cosa da fare è quella di battersi contro le grandi opere di investimento al servizio dell’industria fossile: nuovi aeroporti, nuovi gasdotti, nuove autostrade, nuove trivellazioni, nuove miniere, la nuova follia del gas di scisto, i nuovi capricci dei geoingegneri che sognano di dotare la Terra di un termostato.. di cui loro avrebbero il controllo. Naomi Klein ha perfettamente ragione quando invita a rafforzare questa contestazione che chiama “Blokadia”. Ha ragione perché questo blocco ha in effetti un’importanza strategica: il livello attuale di sviluppo infrastrutturale permette al capitale di continuare a bruciare le masse di combustibili fossili che ci mettono sulla strada di un riscaldamento di 6°C da qui al 2100. Le mobilitazioni come quella di Notre Dame delle Lande, o del gasdotto Keistone XL, o del parco Yasuni, sono come sistemi di chiusura che sbarrano la strada. Difendiamole e facciamo i cordoni per difenderle.

La terza cosa da fare è sostenere tutte le iniziative collettive, sociali e democratiche che fanno avanzare la nozione di comune, dei beni comuni e della gestione comune della Terra “come buoni padri e madri di famiglia”. Non guardiamo dall’alto i gruppi di acquisto di prodotti locali dell’agricoltura biologica e altre iniziative che tendono alla sovranità alimentare, ad esempio. Non pensiamo che il capitalismo possa essere rovesciato in questo modo, per contagio. Questo non toglie che queste iniziative possano essere strumenti di coscientizzazione, in particolare quando esse organizzano il dialogo e rompono di conseguenza la separazione – generalizzata dal capitale – tra produttori e consumatori o quando esse coinvolgono il movimento sindacale.
Tuttavia, va da se che l’educazione permanente, i blocchi e le iniziative di conquista del bene comune non basta. La lotta chiede un progetto di società alternativo, un programma e una strategia. Provo a passare in rassegna questi tre aspetti.




Progetto di società: l’aggiornamento eco socialista

Chiamiamo le cose con il loro nome: il progetto di società alternativa non può essere che di tipo socialista. Si tratta di sopprimere la produzione di valori di scambio per il profitto della minoranza capitalista e di rimpiazzarla con la produzione di valori d’uso per la soddisfazione di bisogni umani reali, definiti democraticamente. Non c’è altra scelta possibile, né altra alternativa possibile a questo modo di produzione. Ora, questa alternativa corrisponde fondamentalmente alla definizione del socialismo.


Il movimento autonomo delle femministe chiede alle nostre organizzazioni che tirino tutte le conseguenze necessarie del fatto che il socialismo determina non soltanto la soppressione dello sfruttamento del lavoro salariato ma anche la lotta contro l’oppressione delle donne. Il lavoro domestico gratuito al servizio del mantenimento e della riproduzione della forza lavoro è un pilastro del sistema, accuratamente celato dal patriarcato, che opprime anche i gay e le lesbiche. Il nostro movimento cerca di tirarne le conclusioni sul tipo di socialismo che vogliamo.
Allo stesso modo, dobbiamo esplorare ciò che la gravità della crisi ecologica determina per il nostro progetto socialista. Anche in questo campo un aggiornamento è necessario. Citerei brevemente tre punti:
* la tecnologia. Lenin diceva che ”il socialismo è soviet più elettricità". Chiaramente questa concezione oggi è insufficiente. Come sarà prodotta l’elettricità? Dal carbone, dal petrolio, dal gas natureale, dall’energia nucleare? Un socialismo degno di questo nome richiede un’elettricità prodotta unicamente con risorse di energia rinnovabili e utilizzata con il massimo dell’efficienza. In altri termini, la ”crisi ecologica” ci conduce a concludere che le tecnologie non sono neutre;
* I limiti. Engels esaltava “ lo sviluppo illimitato delle forze produttive” che che sarebbe diventato possibile, a suo avviso, una volta che l'umanità si fosse sbarazzata degli “ostacoli capitalisti”. Si può discutere dell’interpretazione esatta di questa frase, dell’importanza che Engels dava alle forze produttive non materiali quali la conoscenza, ecc…Ma una cosa è certa: il progetto socialista è ostacolato da ciò che Daniel Bensaid chiamava “scorie produttiviste”. Eliminiamole. Noi lottiamo per un socialismo che rispetti i limiti delle risorse, i ritmi e i modi di funzionamento degli ecosistemi così come dei grandi cicli naturali. Un socialismo che applichi il principio di precauzione e rinunci al “dominio della natura”;

* il decentramento. Marx disse che la Comune di Parigi era “ la forma politica infine trovata dell’emancipazione del lavoro”. Sulla base di questa esperienza rivoluzionaria, abbandonò concezioni maggiormente centralizzatrici, si pronunciò per una federazione di comuni come alternativa alla stato e si mise a studiare le forme comunali/comunitarie delle società precapitaliste. Una reale democrazia dei produttori associati non è in effetti pensabile senza la distruzione dello stato e la sua sostituzione con una federazione di strutture di autorganizzazione decentrate che si coordinano. La transizione energetica necessaria ci incoraggia ad optare in maniera molto più audace per questa concezione, poiché le fonti rinnovabili implicano un decentramento spinto che facilita la gestione da parte delle comunità o sotto il loro controllo. Possiamo completare la formula di Marx “la comune è la forma politica infine trovata dell’emancipazione del lavoro e della sostenbilità ecologica” ( nel vero senso della parola).

Questi tre punti, penso, sono sufficienti a dimostrare che l’ecosocialismo è una cosa differente da una nuova etichetta su una vecchia bottiglia: è un progetto emancipatorio che integra le nuove sfide alle quali l’umanità è chiamata a rispondere che riguardano la distruzione dell’ambiente capitalista e da parte dell’esperienza disastrosa del “socialismo reale”.



Programma: una radicalità imprescindibile

Per quanto riguarda il programma, direi che coloro che pensano che la questione ecologica rischi di farci sviare dalle risposte anticapitaliste all’austerità si sbaglia di grosso. E’ vero Il contrario: in realtà l’urgenza e la gravità della crisi ecologica fornisce una forte legittimità a un programma estremamente radicale, rivoluzionario, la cui chiave di volta è la doppia espropriazione/socializzazione dell’energia e del settore finanziario, senza indennizzo e sotto controllo operaio.


Questi due settori sono profondamente correlati, in specifico perché i giganteschi investimenti del settore fossile (prospezione, trivellazioni, miniere, centrali elettriche, linee ad alta tensione, ecc..) sono investimenti a lungo termine, finanziati dal credito. Tenendo conto di quanto dicevo prima sulla messa in mora del sistema energetico senza ammortamento, cosi come delle riserve fossili da lasciare sotto terra, la nazionalizzazione è la condizione necessaria affinché la collettività disponga delle leve e dei mezzi che permettano di organizzare la transizione energetica indipendentemente dagli imperativi del profitto, in un quadro decentralizzato.

In base a questa prospettiva si possono organizzare numerose rivendicazioni immediate, che considererò in questa sede, limitandomi a segnalare due questioni di grande importanza, nella doppia direzione della risposta all’austerità e di diffusione dell’idea del comune.

La prima è quella della gratuità. Ad esempio, la gratuità dei servizi di base corrispondenti ai bisogni socialmente necessari in materia di accesso all’acqua, alla luce, alla mobilità, al riscaldamento (combinato con una tariffazione molto progressiva per quanto eccede questi bisogni)


La seconda è quella della riduzione della sfera del mercato a profitto del settore pubblico-democratico, con meccanismi di controllo e di partecipazione della popolazione: società pubbliche di isolamento-rinnovo degli alloggi, società pubbliche di trasporto in comune, e così via.




Strategia: convergenza delle lotte contadine, indigene, operaie e femministe

Terminerei con la questione della strategia. E’ chiaro che l’umanità non potrà uscire dal vicolo cieco in cui il capitalismo l’ha portata se non con mezzi rivoluzionari. E’ chiaro anche che la lotta anticapitalista da condurre implica necessariamente un ruolo centrale della classe operaia (cioè di tutti quelli e quelle la cui esistenza dipende dallo sfruttamento diretto o indiretto della loro forza lavoro da parte del capitalismo nella produzione, nei servizi o nella riproduzione della forza lavoro).



Ma una rivoluzione non è fatta da due eserciti ben definiti – la classe operaia e la borghesia – che si mettono uno di fronte all’altro su un campo di battaglia. Tutte le situazioni rivoluzionarie sono il prodotto di una crisi della società nel suo complesso, di un fermento confuso di iniziative delle classi, ma anche di parti di queste, di strati sociali, ecc…

All'interno di questi fermenti la classe operaia deve conquistare un’egemonia mostrando nella pratica che il suo programma fornisce risposte ai problemi e alle aspirazioni di tutti/e gli sfruttati/e e di tutti/e gli/le oppressi/e.



Questa messa a punto è particolarmente pertinente qui perchè la “crisi ecologica” è come la minaccia della guerra atomica: interroga e mette in movimento milioni di uomini e di donne di tutti gli strati sociali, inquieti per il futuro del pianeta e per quello dei loro figli. E’ per questo che le grandi mobilitazioni ecologiche, come le grandi mobilitazioni pacifiste, hanno spesso un lato interclassista. Certamente i lavoratori e le lavoratrici sono maggioritari (sicuramente nei paesi “sviluppati”, nei quali la classe operaia forma la maggioranza della popolazione), ma non vi partecipano in quanto lavoratori/lavoratrici, con la coscienza del loro ruolo specifico. 

A mio avviso il compito dei rivoluzionari in questo contesto non è quello di restare ai bordi della strada per distribuire volantini chiamando ad una risposta socialista. Questi volantini sono certamente utili, ma il nostro compito è anche di costruire il movimento di massa e di orientarlo verso soluzioni anticapitaliste.
Questa discussione strategica è tanto più importante poiché la classe operaia è oggi molto in ritardo nella lotta sul clima, mentre i contadini e i popoli indigeni sono in prima fila con rivendicazioni anticapitaliste – e le donne giocano un ruolo chiave in tutti e due i casi.

Per costruire il movimento di massa, dobbiamo farlo con la preoccupazione strategica di portarvi all'interno il mondo del lavoro, il cui ruolo sarà decisivo. Ma per questo, dobbiamo comprendere le ragioni specifiche che spiegano la partecipazione relativamente limitata del movimento operaio alla lotta ecologica in generale, e climatica in particolare. 

La spiegazione di questo ritardo non è complicata. Oggi, quando i piccoli contadini lottano per le loro condizioni di esistenza contro l’agrobusiness, le rivendicazioni immediate che portano avanti coincidono largamente con il programma agrario da applicare per salvare il clima. In più, loro sanno che hanno bisogno dell’appoggio della popolazione in generale per far fronte ad un avversario molto potente che vuole distruggerli, pertanto propendono maggiormente per un'alleanza “operai-contadini” che verso un programma piccolo borghese. Lo stesso vale, mutatis mutandis, per quanto riguarda i popoli indigeni nella difesa del loro modo di vita basato sulla simbiosi con la foresta, per esempio.

In queste due categorie, non è strano che le donne giochino un ruolo chiave. Non per il fatto di una ”essenza femminile” ecologica, ma perchè le donne forniscono l’80% della produzione di viveri a livello mondiale, da una parte, e dall'altra perché il ruolo di cura che il patriarcato attribuisce loro nella divisione del lavoro le pone direttamente di fronte agli impatti più brutali del cambiamento climatico, quali la scarsità delle risorse di acqua. 

Le cose si presentano diversamente per lavoratori e lavoratrici. In effetti, non vi è coincidenza ma tensione, e anche opposizione apparente – a prima vista - tra le rivendicazioni immediate che esse/i pongono spontaneamente per difendere il loro sostentamento, da una parte, e il programma che dovrebbe essere applicato in materia ecologica, dall’altra.
Va da se che questa opposizione è solo apparente, ma ciò nondimeno rappresenta un ostacolo, soprattutto nelle battaglie condotte impresa per impresa. Spesso lavoratori di imprese inquinanti si dicono combattuti tra la coscienza del carattere ecologicamente nocivo della loro attività e l’obbligo di difendere il posto di lavoro. Questo strappo non può aversi che con risposte anticapitaliste, che sono le sole che permettono di rispondere allo stesso tempo ai bisogni sociali e ai vincoli ecologici.Tale è il percorso strategico dell’ecosocialismo.

Non voglio fare un elenco di queste rivendicazioni – che sono in gran parte da inventare nelle lotte concrete, a partire chiaramente dalle battaglie per la salute sui luoghi di lavoro – ma ce ne è una che mi sembra cruciale: la riduzione radicale del tempo di lavoro senza perdita di salario con assunzioni compensatorie e diminuzione forte dei ritmi di lavoro, sotto controllo operaio.
E’ una rivendicazione decisiva perché la riduzione radicale del tempo di lavoro con attenuazione dei ritmi costituisce il miglior modo di lottare contro la disoccupazione contrastando il produttivismo. Per comprendere l’importanza strategica di questa rivendicazione dal punto di vista ecologico, bisogna sapere in particolare che ridurre la produzione materiale e i trasporti è una condizione necessaria per una transizione energetica verso le fonti rinnovabili nel rispetto del vincolo climatico.

Numerosi elementi si oppongono alla diffusione di queste rivendicazioni ecosocialiste nel movimento operaio. Una di queste è evidentemente l’esistenza di una burocrazia sindacale che pratica la collaborazione di classe e che spera con questa scappatoia – ancora un’illusione! – di accompagnare una “ transizione giusta” verso un capitalismo sociale ed ecologico.
Impegnarsi nella costruzione del movimento di massa in difesa dell’ambiente in generale, del clima in particolare, significa mettere sotto accusa la logica capitalista a partire da questo movimento, nell’azione, su scala di massa. Ciò non può che spingere lavoratrici e lavoratori a partecipare alla lotta con le loro armi e a giocare il ruolo decisivo che in definitiva sarà loro.

La strategia rivoluzionaria, non è l’operaismo o l’economicismo denunciato da Lenin. Non si tratta nemmeno di correre dietro ai verdi. Si tratta di rispondere globalmente all’impasse globale del capitalismo, su tutti i terreni e in tutti gli ambiti. Si tratta di ricollegarsi con le più belle tradizioni rivoluzionarie del movimento operaio, come quelle che che si esprimono in questo bel canto di operai viennesi, un canto eco socialista antel litteram “siamo noi i costruttori del mondo nuovo/ siamo noi i campi, il seminatore e il seme/ siamo noi i mietitori dei prossimi raccolti/ siamo noi il futuro e siamo noi la vita”




Trascrizione (rivista e ridotta dall'autore) della relazione tenuta da Daniel Tanuro lo scorso 28 luglio al 32° campeggio internazionale anticapitalista, che ha avuto luogo in Belgio. La relazione è stata rivista anche sulla base degli interventi di quell'incontro, che hanno permesso all'autore di ritoccare e precisare il testo in alcuni punti.


(1) l'autore utilizza il termine "communiser", che si può tradurre con socializzare, ma meglio con "rendere comune" (NdR)
Traduzione di Giovanni Peta (revisione redazionale)







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