Alessandro
Scuro
No te conoce el toro ni la higuera,
ni caballos ni hormigas de tu casa.
No te conoce el niño ni la tarde
porque te has muerto para siempre.
...
Porque te has muerto para siempre,
como todos los muertos de la Tierra,
como todos los muertos que se olvidan
en un montón de perros apagados.
Il
dibattito che occupò la Spagna intellettuale ed artistica nei primi
decenni del Novecento è normalmente stigmatizzato nell’opposizione
tra i “vecchi” della Generación del 98 e i “giovani” di quella
del 1927, nonostante entrambi i gruppi siano stati estremamente
eterogenei per età e varietà d’espressione, oltre che di idee.
Vengono normalmente inclusi tra i primi gli autori che, in contrasto
con i precetti del modernismo allora in auge, esprimendosi
generalmente in prosa, si occuparono di sollevare, al principio del
secolo, le questioni sociali più impellenti e la necessità di una
radicale rigenerazione del paese in seguito al desastre del 1898.
Oltre ai saggi di Unamuno e di Ortega y Gasset e l’opera lirica dei
fratelli Machado, i noventayochistas sono ricordati per alcuni
romanzi filosofici (Camino de perfección di Pío Baroja, La voluntad
di Azorín e Amor y pedagogía di Unamuno, tutti del 1902),
esemplificati nei dialoghi metafisici tra maestro e allievo, secondo
lo spirito krausista, e confusi con la critica sociale del Larra [1]
giornalista.
Le
posizioni qui descritte sono necessariamente riduttive, soprattutto
alla luce delle diverse posizioni che questi scrittori assunsero più
tardi negli anni, ma sono sufficienti per comprendere cosa li
distinguesse dalla generazione successiva, quella descritta da Ortega
nel saggio sulla deshumanización del arte.
Tra i cosiddetti poeti
del ’27 ci sono senz’altro i nomi più noti della poesia spagnola
dell’epoca, quelli che caratterizzano ancora oggi nell’immaginario
il fermento culturale del paese all’approssimarsi del conflitto.
Ortega aveva individuato nella generazione nascente uno spirito di
rivolta contro la tradizione precedente, tratto inevitabile di ogni
nuova tendenza; ma le sue conclusioni, al momento decisivo si
rivelarono in gran parte erronee.
Difficile mostrare docilità allo
spirito del tempo quando l’oppressione e la violenza si fanno
regola, a meno di non farsi complici, con il proprio impegno, il
proprio assenso o il proprio silenzio, a partire dal momento in cui,
secondo quanto sostiene John Beevor, «ogni nozione tradizionale di
parentela e di comunità locale venne ciecamente distrutta».
La
guerra civile raccoglie in un’istantanea un secolo e mezzo di
storia spagnola e accomuna nell’esperienza, non solo le generazioni
del primo Novecento, quelli che vissero il conflitto da adulti o da
ragazzi, ma anche quelle nate nei successivi quarant’anni, fino
alla morte del dittatore (1975).
Alcuni degli episodi più noti dei
primi mesi dello scontro sono sufficienti a comprendere la scelta di
fronte alla quale si trovano gli artisti, gli intellettuali spagnoli
e ogni personalità pubblica al momento del conflitto, dilemma
estendibile, aldilà di ogni classe sociale e ogni possibile grado di
coscienza, all’intera popolazione del paese.
Un
mese dopo il sollevamento dei generali, Federico García Lorca venne
arrestato e ucciso dalle milizie franchiste nelle vicinanze di
Granada, dopo che nei giorni precedenti erano stati uccisi alcuni
professori universitari e il cognato del poeta, l’allora sindaco
della città. Il suo assassinio destò un enorme scalpore anche al di
fuori dei confini nazionali.
Lorca era internazionalmente noto e
conosciuto, stimato e considerato per la sua arte e il suo carattere
cordiale, allegro ed entusiasta, lontano fino all’irrimediabile
dalla violenza di quegli eventi, tanto è vero che tornò in
Andalusia qualche mese prima della sua fine, senza dare peso agli
avvertimenti degli amici sul pericolo del conflitto imminente.
Di
simpatie liberali, non aveva mai partecipato ad attività politiche
di rilievo, né manifestato pubblicamente la sua opinione in merito
al conflitto che lo sorprese nella sua terra, anacronisticamente
distratto degli eventi. Se la sua poesia entra di diritto nei canoni
osservati da Ortega, il suo ritratto coincide meglio con quello dei
giovani ai quali si rivolse Machado in più occasioni negli anni
precedenti alla guerra e durante il conflitto.
Machado
e Lorca avevano in comune l’esperienza madrileña delle istituzioni
krausiste di Giner de los Ríos, ed entrambi ne erano viva
espressione [2], nonostante le evidenti distanze formali che
dividevano le due generazioni. Non si può nemmeno definire l’opera
del poeta di Granada come totalmente aliena da ogni contenuto umano,
come volevano le teorie dell’arte per l’arte, della forma
coltivata fino all’ossessione, delle quali fu senz’altro valido
interprete e convinto sostenitore; ma esse si esprimono con canti
gitani, con le grida strazianti dei negri di Nuova York, o ancora
nell’attività della Barraca, il teatro ambulante con il quale il
poeta ricorse i villaggi del paese per offrire rappresentazioni dei
classici del Siglo de Oro, negli anni della repubblica.
A completare
il quadro delle ragioni, apparentemente insignificanti, ma più che
sufficienti allora ad una sommaria condanna capitale e a fare di
Lorca un pericolo antifascista (Ramón Ruíz Alonso, uno sei suoi
arrestatori, dichiarò che «faceva più danni lui con la penna che
altri con il fucile») sono le conclusioni Juan Luis Trescastro,
l’esecutore: «Abbiamo ucciso Federico García Lorca. Gli ho
sparato due proiettili nel culo in quanto omosessuale».
Al
momento del delitto Machado, come molti altri, omaggiò il poeta,
presto convertito in uno dei principali simboli della causa
repubblicana. Da allora, secondo le sue parole, una fonte sgorga dal
tumulo dove il poeta venne seppellito, piangendo in eterno: «Il
crimine è stato commesso a Granada! Nella sua Granada!».
Lorca era
il tipico esempio dei giovani preparati per la pace ma che
necessariamente, nelle previsioni ormai realizzate di Machado, si
sarebbero trovati ad affrontare la guerra, schierarsi e difendere le
proprie ragioni retrocedendo alla barbarie che li stava travolgendo.
Lorca è però al tempo stesso la prova dell’illusione orteghiana
di una poesia pura, indifferente alla realtà, come appare chiaro
dalle dichiarazioni tardive di uno dei protagonisti dei decenni
successivi, che conobbe Lorca da poeta in erba in cerca di consigli e
di conferme, tale quale era allora.
Nella primavera del 1936 Gabriel
Celaya [3] incontrò per l’ultima volta Lorca, conosciuto alla
Residencia de Estudiantes di Madrid. Il poeta basco si ispirava
allora alla ricerca formale dei poeti del ’27, ma le sue idee
coincidevano già con quelle che anni più tardi lo porteranno ad
essere uno dei propulsori del movimento generalmente ricordato con il
nome di “poesia sociale”, e racconta così il suo stupore,
nell’intendere le confidenze che l’amico gli fece allora. Quella
sera era presente con loro anche José Manuel Aizpurua, fondatore
della Falange di San Sebastián, la città nelle quale avvenne
l’incontro descritto:
Federico mi chiese perché non avessi voluto stringere la mano a Aizpurua, e perché, entrambi, lo avessimo coinvolto in una situazione così tesa. Io cercavo di spiegarglielo con frenesia, forse con settarismo, e lui, incidendo nell’umano, cercava di spiegarmi che Aizpurua era un bravo ragazzo, che aveva una grande sensibilità, che era molto intelligente, che ammirava le mie poesie etc. Finché all’ultimo, di fronte alla mia sempre più violenta testardaggine, reagì o volle forse farmi spalancare gli occhi di sorpresa, confessandomi una cosa terribile:
– José Manuel è come José Antonio Primo de Rivera [4]. Un altro bravo ragazzo. Sai che ogni venerdì ceno con lui? Proprio così. Usciamo assieme in taxi con le tendine abbassate perché né a lui conviene che lo vedano con me né a me conviene che mi vedano con lui.
Federico rideva. Credeva che tutto ciò fosse solo una stupidaggine da bambini. Non ci vedeva niente dietro. Rideva come di uno scherzo divertente. Però questo sorriso, questa fiducia nel fatto che l’uomo sia sempre umano, questo credere che un amico, fascista o no, è sempre un amico, gli costò la morte. Perché furono degli amici, amici che contava tra i suoi migliori, color che in fin dei conti risultarono essere soprattutto dei fascisti. Non lo fucilarono, no. Se ne lavarono le mani. E lo consegnarono a chi lo avrebbe fucilato.[5]
Note
[1]
José Mariano Larra (1809-1837) fu uno degli autori più noti del
romanticismo spagnolo. Autore di opere teatrali, è ricordato
soprattutto per i suoi articoli di costume e critica sociale, dallo
stile pungente ed ironico, al quale molti, in seguito, si ispirarono.
La sua tomba venne omaggiata da Azorín, Baroja e Unamuno, in segno
di riconoscimento nel centenario della nascita. Larra morì suicida a
ventisette anni.
[2]
Antonio Machado sì definì nel suo autoritratto «un hombre
bueno», un brav’uomo in pace con gli uomini ed in guerra con sé
stesso, con le proprie interiora, come si descriverà nei Proverbi e
cantari, e questa, reale o meno, è ancora oggi la sensazione che il
suo nome (certamente abusato e di facile manipolazione) suscita nella
memoria collettiva. Nonostante la fama già raggiunta in vita, il
poeta, la cui famiglia era caduta in disgrazie dopo la morte del
padre, si guadagnò da vivere come professore nelle scuole di Soria,
Baeza e Segovía, i luoghi, oltre a Madrid e Parigi (dove fu
traduttore, con il fratello Manuel, per la casa editrice Gautier)
dove trascorse la sua esistenza, prima di morire in esilio. Tuttavia,
come Mairena, mal sopportava il suo ruolo istituzionale, svolto senza
grande entusiasmo, riservando per la sua poesia e i suoi scritti lo
spirito pedagogico ereditato da Giner.
[3]
Gabriel Celaya (1911-1991). La sua raccolta Cantos Ibéros
(1955), il cui componimento più conosciuto è «la poesía es un
arma cargadade futuro» è considerato come la bibbia della poesia
sociale.
[4]
José Antonio Primo de Rivera (1903-1936), figlio del
dittatore Miguel e fondatore delle Falange, il partito fascista
spagnolo, venne arrestato e incarcerato ad Alicante per le sue
attività cospirative contro la Repubblica. Pochi mesi dopo
l’insurrezione dei generali, nell’autunno del 1936, José Antonio
venne ucciso divenendo una delle prime vittime illustri del fronte
franchista.
[5]
Il testo di Celaya dalla quale è estratta questa
citazione, pubblicato su «Realidad. Revista de cultura y política»,
è consultabile in linea.
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