uno dei due è l'altro

uno dei due è l'altro

martedì 26 luglio 2016

Frammenti dall'estate. Madre Notte. (K.Vonnegut & A.Lincoln)*

      
(Ansel Adams)


Questo è l’unico dei miei racconti di cui conosca la morale. Non è una morale meravigliosa, non credo; si dà soltanto il caso ch’ io sappia di quale morale si tratti: noi siamo quel che facciamo finta di essere, sicché dobbiamo stare molto attenti a quel che facciamo finta di essere.

La mia esperienza con i traffici e gli imbrogli dei nazisti è stata molto limitata. A Indianapolis, la mia città natale, c’era, negli anni Trenta, qualche spregevole e chiassoso fascista d’origine americana; mi ricordo che qualcuno mi passò sottobanco una copia dei Protocolli degli anziani di Sion**, che avrebbe dovuto essere il piano segreto degli ebrei per la conquista del mondo. E mi ricordo di aver riso alle spalle di una mia zia che per sposare un tedesco dovette scrivere a Indianapolis per ottenere testimonianza che nelle sue vene non scorreva sangue ebraico. Il sindaco di Indianapolis la conosceva fin dai tempi del liceo e della scuola di ballo e si divertì a riempire di nastri e di sigilli ufficiali i documenti richiesti dai tedeschi, tanto che finirono per sembrare dei trattati di pace del diciottesimo secolo.

Dopo un po’ venne la guerra e io mi ci trovai dentro; fui preso prigioniero ed ebbi modo di vedere un po’ di Germania, dall’interno; intanto la guerra continuava. Ero soldato semplice, esploratore di battaglione, e secondo la convenzione di Ginevra dovevo lavorare per il mantenimento, il che fu un bene, non un male. Non dovetti starmene sempre chiuso in qualche prigione isolata in mezzo alla campagna. Potei andare in una città, Dresda, e vedere la gente e quel che faceva.





Nella mia squadra di lavoro eravamo circa un centinaio di persone; fummo destinati a una fabbrica che produceva uno sciroppo di malto arricchito di vitamine, per donne incinte. Sapeva di miele diluito mischiato al fumo del noce americano. Era buono. Vorrei averne un po’ adesso. La città era graziosa, tutta ricamata, come Parigi, e la guerra non l’aveva neppure sfiorata. Si trattava probabilmente di una città “aperta”, che non poteva essere attaccata, visto che non ospitava né centri di raccolta delle truppe né industrie militari.

Tuttavia la notte del 13 febbraio 1945, circa ventun anni fa,  potenti esplosivi furono sganciati su Dresda da apparecchi inglesi e americani. Non c’erano obiettivi particolari per le bombe. La speranza era appiccare il fuoco un  po’ dappertutto e di costringere i pompieri a starsene rintanati sottoterra.

Poi sui fuochi avviati furono rovesciate centinaia di migliaia di piccole bombe incendiarie, come semi su di una zolla appena rivoltata. Altre bombe furono sganciate per trattenere i pompieri nelle loro tane, e i fuochi poterono ingrandirsi e unirsi l’uno all’altro, e diventare una sola apocalittica fiammata. E in un attimo: tempesta di fuoco. Tra parentesi, fu il più colossale massacro di tutta la storia d’Europa. Ah sì, e allora?

Noi non riuscimmo a vedere il fuoco. Eravamo in un fresco deposito di carne, sotto il mattatoio, insieme con i nostri sei custodi e file e file di mucche, maiali, cavalli, pecore, macellati e squartati. Sentivamo le bombe che saltavano qua e là sopra di noi. Di tanto in tanto cadeva una lieve pioggerella di calcina. Se fossimo saliti a dare un’occhiata, ci saremmo trasformati in altrettanti oggetti caratteristici degli incendi; pezzi accartocciati di legna da ardere lunghi settanta, ottanta centimetri… esseri umani assurdamente piccoli, o, se preferite, colossali cavallette arrostite.




La fabbrica di sciroppo di malto era sparita. Tutto era sparito, tranne le cantine dove 135.000 Hansel e Gretel erano stati cotti al forno come altrettanti omini di pan di zenzero. Sicché fummo messi a lavorare come minatori di cadaveri; sfondavamo i rifugi e ne tiravamo fuori i corpi. Ebbi occasione di vedere tedeschi di tutte le età, così come la morte li aveva trovati, di solito con in grembo gli oggetti preziosi. A volte i parenti venivano a vederci scavare. Anche loro erano interessanti.

Questo per ciò che riguarda i miei rapporti con i nazisti.

Suppongo che se fossi nato in Germania, sarei stato nazista, e avrei massacrato ebrei, zingari, e polacchi, lasciando sporgere i loro stivali dai cumuli di neve, riscaldandomi  all’idea della mia segreta virtù. Così è la vita.

C’è un’altra morale, evidente, in fondo a questo racconto, ora che ci penso: quando sei morto, sei morto.

E ancora un’altra me ne viene in mente adesso: fai all’amore quando puoi. Ti fa bene.
                                              
                                                            Iowa City, 1966                                                
                                                                                  



###

Abraham Lincoln. Discorso di Gettysburg.
19 novembre 1863.***
       

Or sono diciassette lustri e due anni che i nostri avi costruirono, su questo continente, una nuova nazione, concepita nella Libertà, e votata al principio che tutti gli uomini sono creati uguali. Adesso noi siamo impegnati in una grande guerra civile, la quale proverà se quella nazione, o ogni altra nazione così concepita e così votata, possa a lungo perdurare.

Noi ci siamo raccolti su di un gran campo di battaglia di quella guerra. Noi siamo venuti a destinare una parte di quel campo a luogo di ultimo riposo per coloro che qui diedero la vita, perché quella nazione potesse vivere. È del tutto giusto e appropriato che noi compiamo quest’atto.

Ma, in un senso più vasto, noi non possiamo inaugurare, non possiamo consacrare, non possiamo santificare questo suolo. I coraggiosi uomini, vivi e morti, che qui combatterono, lo hanno consacrato al di là del nostro piccolo potere di aggiungere o detrarre. Il mondo noterà appena, né a lungo ricorderà ciò che qui diciamo, ma mai potrà dimenticare ciò ch’essi qui fecero.

Sta a noi viventi, piuttosto, il votarci qui al lavoro incompiuto, finora così nobilmente portato avanti da coloro che qui combatterono. Sta piuttosto a noi il votarci qui al gran compito che ci è di fronte: che da questi morti onorati ci venga un’accresciuta devozione a quella causa per la quale essi diedero, della devozione, l’ultima piena misura; che noi qui solennemente si prometta che questi morti non sono morti invano; che questa nazione, guidata da Dio, abbia una rinascita di libertà; e che l’idea di un governo di popolo, dal popolo, per il popolo, non abbia a perire dalla terra.





Colmata l’Ultima Misura


Conoscevo anch’io Rudolf Hoess, comandante di Auschwitz. L’avevo incontrato a una festa dell’ultimo dell’anno a Varsavia, durante la guerra… all’inizio del 1944.
Hoess aveva sentito dire che ero uno scrittore e, alla festa, mi prese da parte per dirmi che anche a lui sarebbe piaciuto saper scrivere…

“Quanto invidio quelli che sanno creare…” mi disse. la facoltà di creare è un dono degli dèi”.
Hoess mi disse che aveva da raccontare delle storie meravigliose. Mi disse che erano tutte vere, ma così straordinarie che la gente non ci avrebbe creduto.
Hoess non poteva raccontarmele, finché non avessimo vinto la guerra. Dopo la guerra, disse, avremmo potuto collaborare.

“A raccontare riesco,” disse “a scrivere no”. E mi guardò con gli occhi di chi cerca comprensione. “Quando mi metto a tavolino per scrivere” disse “mi irrigidisco”.

Come mai ero a Varsavia?
C’ero andato per ordine del mio capo, il Reichsleiter Dott. Paul Joseph Goebbels, ministro di Germania per la cultura popolare e la propaganda. Avevo una discreta dote di ingegno come drammaturgo e il dottor Goebbels voleva che la mettessi in pratica. Il dottor Goebbels voleva che scrivessi una specie di sacra rappresentazione per onorare i soldati tedeschi che avevano colmato la loro ultima misura di devozione – in altre parole, che erano morti – nel reprimere l’insurrezione degli ebrei nel ghetto di Varsavia.




Il dottor Goebbels sognava di metterla in scena ogni anno, dopo la guerra, e di utilizzare come scenario, invariabile, le rovine stesse del ghetto.

“Dovranno esserci degli ebrei nella rappresentazione?” gli chiesi.

“Certamente” disse. “A migliaia”.

“Posso chiederle, signore,” dissi io “dove pensa di trovare degli ebrei, dopo la guerra?”.

Intuì lo spirito della mia battuta. “Domanda più che giusta” disse ridacchiando. “la gireremo a Hoess” disse.

“A chi?” dissi. Non ero ancora stato a Varsavia, non avevo ancora incontrato Fratello Hoess.

“Lui dirige una piccola casa di cura per ebrei, in Polonia” disse Goebbels “Dobbiamo chiedergli a tutti i costi di salvarcene qualcuno”.

Devo aggiungere anche questa orrenda rappresentazione ai miei crimini di guerra? No, grazie a Dio. Non riuscii mai a spingermi oltre il titolo provvisorio: Colmata l’ultima misura.
Sono comunque disposto ad ammettere che l’avrei probabilmente scritta, se solo avessi avuto abbastanza tempo, se cioè i miei capi mi avessero sollecitato di più.
Oggi come oggi, sono disposto ad ammettere qualsiasi cosa.

A proposito di questa rappresentazione: un risultato ci fù, molto particolare. Goebbels e poi lo stesso Hitler si interessarono al discorso di Gettysburg  di Abraham Lincoln.
Goebbels mi domandò dove avessi pescato il titolo, e io gli tradussi tutto il discorso di Gettysburg, che lo contiene.




Lo lesse, senza smettere un attimo di muovere le labbra.
“Sa una cosa,” mi disse questo è un ottimo esempio di propaganda. Non si è mai abbastanza moderni, mai così avanti sul passato, come ci si illude di essere”.

“Dalle mie parti è un discorso molto famoso” dissi. Tutti i ragazzetti delle elementari devono impararlo a memoria”.

“Sente nostalgia dell’America?” disse.

“Mi mancano le montagne, i fiumi, le pianure smisurate, le foreste” dissi. “Ma non potrei mai essere felice. Lì sono gli ebrei che comandano tutto”.

“Ci occuperemo di loro quando sarà il momento” disse.

Vivo per quel momento… mia moglie e io viviamo in attesa di quel giorno” dissi.

“Come sta la signora?” disse.

“Splendidamente, grazie” dissi.

Gran bella donna” disse

“Glielo dirò” dissi. “Le farà molto piacere”.

“A proposito di quel discorso di Abraham Lincoln…” disse.

“Sì?” dissi.

“Ci sono dentro delle frasi che farebbero una grande impressione all’inaugurazione dei cimiteri militari tedeschi” disse. “Molto francamente, la maggior parte delle nostre orazioni funebri non mi soddisfa per niente. Ma questo discorso mi pare che abbia quella dimensione in più che andavo cercando. Vorrei proprio farlo vedere a Hitler”.

“Lo faccia senz’altro, signore” dissi.

“Lincoln non era mica ebreo, per caso?” disse.

“Sono certo di no” dissi.

“Sarebbe piuttosto imbarazzante per me, se venisse fuori che era uno di loro” disse.

“Non l’ho mai sentito dire da nessuno” dissi.

“Di questo nome, Abraham, non c’è molto da fidarsi, a dir poco” disse Goebbels.

“Sono sicuro che i suoi genitori non si resero conto che si trattava di un nome ebreo” dissi. “Dev’essergli piaciuto come suonava, tutto lì. Erano gente di frontiera, molto semplice. Se avessero saputo che era un nome ebraico, l’avrebbero senz’altro battezzato con qualche cosa di più americano, George, o Stanley, o Fred, non c’è dubbio”.

Due settimane dopo il discorso di Gettysburg tornò indietro. Attaccata al primo foglio c’era una nota di pugno del Furer.  
“Ci sono dei brani in questo discorso” scriveva “che mi hanno fatto quasi piangere. Tutti i popoli nordici nutrono sentimenti ugualmente profondi per i soldati. Dei legami che ci uniscono, questo, forse, è il più forte”.




Strano… non sogno mai né Hitler,Goebbels, né Hoess, né Goering, né nessuna di quelle altre facce da incubo della guerra mondiale, numero due. Invece sogno donne.

Ho chiesto  a Bernard Mengel, la guardia che mi sorveglia mentre dormo, qui a Gerusalemme, se è mai riuscito a cogliere qualche indizio di quel che sogno.
“L’altra notte?” disse.
“Una o l’altra” dissi.
“La notte scorsa ha sognato delle donne” disse. “Continuava a ripetere due nomi”.
“Quali nomi?”
“Uno era Helga” disse.
Mia moglie” dissi.
“L’altro era Resi” disse.
“Sua sorella più giovane” dissi. “Solo i loro nomi… niente altro?”.
“Ha detto ‘Goodbye’ ” disse.
“Goodbye” ripetei. Era tutto molto logico. Che l’avessi sognato o no. Helga e Resi mi avevano lasciato per sempre.

“E ha parlato di New York” disse Mengel. “Ha bofonchiato qualcosa e poi ha detto ‘New York’ e poi ha bofonchiato qualcos’altro”.

Anche questo era logico, come quasi tutto quel che sogno. Ero vissuto a New York, a lungo, prima di venire in Israele.
“New York deve essere un paradiso” disse Mengel.
“Lo sarà forse per lei” dissi. Per me era l’inferno… anzi inferno no, qualcosa di peggio dell’inferno”.
“E cosa c’è di peggio dell’inferno?” disse.
“Il purgatorio” dissi.







* I brani di Kurt Vonnegut presentati in questo post sono tratti da Madre Notte, casa editrice SE, Milano 1993. Traduzione di Luigi Ballerini. Tra il primo brano , "Introduzione dell'Autore" e il secondo, "Colmata l'ultima misura", ho arbitrariamente inserito una versione del discorso di Gettysburg tenuto da A. Lincoln, che nel romanzo è soltanto citato.

** Raccolta di scritti apocrifi compilati da un gruppo di reazionari russi nel 1903 e messi in circolazione da propagandisti antisemiti come i verbali di certe riunioni tenute a Basilea nel 1897 in cui ebrei e massoni - si diceva – avevano formulato un piano per la distruzione della civiltà cristiana.

*** Il famoso discorso che Abraham Lincoln pronunciò in occasione della commemorazione dei soldati caduti nella battaglia di Gettysburg, durante la guerra civile.



Nessun commento:

Posta un commento