uno dei due è l'altro

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lunedì 18 luglio 2016

GUERRA E RIVOLUZIONE


Conoscerete la verità ed essa vi renderà liberi (Gesù).

L’ipotesi illusoria non fa le veci della verità (Mohammad).

La verità è rivoluzionaria (Lenin).

***

Per lo storico Franco Cardini, con il terrorismo jihadista l’Occidente si trova a dover fare i conti con una guerra sociale che usa la religione come mero pretesto: «Non illudiamoci. Questa non è una guerra di religione: è una guerra sociale, della quale è teatro tutto il mondo». Si tratta allora di chiarire i termini politici e sociali di questa guerra, di precisarne i contorni, anche ideologici, di coglierne la dinamica interna e di connetterla al più generale e unitario processo sociale mondiale. Nel suo piccolo, chi scrive ha cercato di dare un contributo alla comprensione di questa «guerra sociale» scrivendo diversi post sull’argomento, ai quali rimando i lettori, e la cui tesi centrale si può riassumere come segue: la religione non spiega nulla di fondamentale, mentre è essenziale capire l’uso politico-ideologico che di essa fanno i movimenti politico-militari al servizio di interessi economici, sociali e geopolitici ben definiti.

A proposito dell’evocata guerra sociale, e prima di entrare nel merito della questione, non posso non evidenziare il fatto che il Presidente degli Stati Uniti si è visto costretto ad abbandonare in fretta il vertice Nato di Varsavia, nel corso del quale gli Alleati hanno approntato nuove misure politico-militari idonee a contenere l’attivismo imperialista della Russia di Putin, per fronteggiare quella che molti analisti politici americani definiscono «una nuova guerra civile»

«Obama ha la guerra in casa, e viene qua a intromettersi nelle vicende che riguardano il mio cortile di casa!», avrà pensato con un certo fastidio e con molto compiacimento il virile Vladimir. L’impiego del robot kamikaze per rendere inoffensivo il cecchino-vendicatore di Dallas è qualcosa che deve farci riflettere, auspicabilmente andando oltre le consuete argomentazioni eticamente corrette – come quelle che si aggrovigliano intorno all’uso dei droni nella «guerra asimmetrica» contemporanea – circa «la necessità di mantenere le garanzie dello Stato di diritto anche nella lotta al terrorismo». Ma su questo punto spero di ritornare quanto prima.

Dopo la strage di Dhaka (o Dacca) è riesplosa in Italia la polemica fra intellettuali e politici circa la vera natura del terrorismo di «matrice islamica». La scoperta della provenienza sociale dei terroristi («giovani rampolli di buona famiglia, che non avevano mai visto una scuola coranica in vita loro») implicati nel massacro dei nostri compatrioti ha ringalluzzito i sostenitori della natura sostanzialmente religiosa (islamica) del terrorismo che imperversa in mezzo mondo e che stressa non poco diversi quadranti geopolitici. 




Scrive ad esempio Giovanni Belardelli sul Corriere della Sera del 7 luglio:

«Dopo la strage di Dacca, abbiamo scoperto ancora una volta che i terroristi non sempre vengono dai ceti diseredati, non appartengono ai “dannati della terra”. Lo abbiamo ri-scoperto nel senso che qualcosa, nella nostra cultura profonda, ci impedisce di prendere atto una volta per tutte del fatto che non è, o è solo in parte e neppure quella principale, il disagio sociale ad armare la mano del terrorismo jihadista. Nel caso del Bangladesh, uno dei Paesi più poveri del globo, i terroristi erano figli addirittura delle classi agiate; e ce ne siamo molto stupiti, quasi avessimo dimenticato che Salah Abdeslam, protagonista degli attentati parigini del novembre scorso, veniva pur sempre da una famiglia di ceto medio che abitava in un dignitosissimo palazzo borghese. Gli esempi ulteriori non mancherebbero, almeno da quando la strage dell’11 settembre fu guidata dall’ingegnere egiziano Mohamed Atta, agli ordini di Osama bin Laden, figlio di un miliardario».

 Il lettore si prepari, adesso arriva il bello: 

«Ma è come se fossimo rimasti tutti discepoli di Marx e della sua idea che ideologie e religioni (dunque anche il fondamentalismo islamista) appartengono al mondo della “sovrastruttura”, laddove invece le cause vere dei fenomeni sociali e della storia in generale andrebbero cercate altrove, a livello della “struttura”, cioè dei rapporti sociali di produzione e, in sostanza, dell’economia. Un’idea particolarmente in sintonia del resto con i caratteri più profondi della cultura occidentale, che pone appunto l’economia al vertice di tutto, che da tempo ne ha fatto la dimensione centrale dell’esistenza (non si regge soprattutto sull’economia, da ciò forse la sua fragilità, l’intero assetto dell’Unione europea?)»

Con una tipica inversione di stampo ideologico, sempre per rimasticare abbastanza indegnamente i concetti marxiani, Belardelli presuppone «i caratteri più profondi della cultura occidentale», alla quale evidentemente il comunista di Treviri non sarebbe rimasto estraneo, a quella che è una realtà sempre più evidente: l’economia come «dimensione centrale dell’esistenza (non si regge soprattutto sull’economia, da ciò forse la sua fragilità, l’intero assetto dell’Unione europea?)». Come si vede, è lo stesso critico del “materialismo storico” che si vede costretto ad ammettere il dominio dell’economico sulla vita degli individui, realtà che Marx si è “limitato” a penetrare concettualmente per scoprirne la dimensione storico-sociale; salvo poi far derivare, Belardelli, quel dominio (Marx parlava di «momento egemone») dai  «caratteri più profondi della cultura occidentale».




Fin quando la società rimarrà sul terreno della divisione classista fra dominanti e dominati, l’economia dovrà necessariamente porsi al centro della prassi sociale umana, fino ad assumere, com’è accaduto nel moderno Capitalismo, il carattere di una potenza sociale che prescinde dalla volontà degli stessi capitalisti singolarmente presi. Siamo alla ben nota metafora del Moloch che brama sacrifici umani d’ogni genere. Solo nella Comunità umana, dice sempre Marx, ossia nella società priva di classi sociali, la volontà organizzata e unificata degli individui potrà finalmente dominare la totalità del processo sociale, mentre oggi essi devono, per l’essenziale, subirlo. 

Insomma, materialista (“economicista”) è il Capitalismo! Non bisogna dimenticare che Marx si occupò della storia «sinora esistita» (o preistoria rispetto alla storia umana che, forse, verrà), la quale è appunto «storia di lotte di classi», le quali non raramente, anzi piuttosto frequentemente, hanno assunto l’aspetto di aspre e sanguinose contese religiose, cosa abbastanza risaputa e facile da comprendere; ma evidentemente non per  Belardelli, il quale infatti scrive:

«C’è davvero qualcosa di singolare nel fatto che un’Europa che è stata dilaniata tra 500 e 600 dalle guerre di religione, e prima ancora – nella Francia meridionale del XIII secolo – è stata testimone di una crociata contro gli eretici (sterminati, a quel che dicono le cronache del tempo, al grido: “uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi”), c’è qualcosa – dicevo – di singolare nel fatto che ora quella stessa Europa non riesca a considerare seriamente la componente evidentemente religiosa del terrorismo islamico. Siamo così dimentichi di quel passato, che per timore d’essere tacciati di islamofobia ci sentiamo in dovere di dire e scrivere sempre una cosa ovvia, cioè che non tutti gli islamici sono terroristi». 

Qui è appena il caso di ricordare che ancora nel XVIII secolo, prima della Rivoluzione francese, l’ideologia dominante presentava la storia del potere di classe, con la sua necessaria proiezione geopolitica, nei termini di una storia sacra, di una storia avente cioè a fondamento la natura sostanzialmente divina della gerarchia sociale, la quale culminava nella sacra figura del Monarca, immagine terrena di un ben più alto e potente Monarca: Dio.




«Per di più, la centralità dell’economia si è accompagnata soprattutto in Europa a un processo impetuoso di secolarizzazione che ha reso un luogo comune l’idea che la religione sia il regno dell’illusione e della mera apparenza, quando non della superstizione; qualcosa che i “lumi” della modernità presto cancelleranno definitivamente, sicché non è da cercare lì, nei riferimenti religiosi, alcuna vera motivazione dell’agire umano, neppure dell’agire di un terrorismo che proclama apertamente la guerra santa contro i “crociati” e risparmia chi si mostra in grado di recitare i versetti del Corano».

A parte la disarmante ingenuità di Belardelli, il quale prende sul serio ciò che il taglia teste nel Santo e Misericordioso nome di Allah pensa e dice di se stesso (1), qui va colta l’occasione per rilevare l’abissale distanza che corre tra il “materialismo storico” e la polemica illuminista e anticlericale del positivismo ateo, come viene fuori, tanto per fare un solo esempio, dalla citazione che segue: 

«Una religione che ha sottomesso a sé l’impero mondiale romano, e che ha dominato per 1800 anni la massima parte dell’umanità civile, non si liquida spiegandola puramente e semplicemente come un insieme di assurdità originate da impostori» (2).

Ma qui non è il luogo adatto per diffondersi oltre intorno a ciò che distingue, sul piano storico, politico e concettuale, il punto di vista rivoluzionario-borghese, che a suo tempo dovette regolare i conti con il potere economico, politico e ideologico della Chiesa, e il punto di vista rivoluzionario “proletario” che nacque proprio come superamento critico della posizione radicale-borghese (3).


«Tutti i movimenti di massa del medioevo», scriveva Engels, «portavano necessariamente una maschera religiosa, apparivano come restaurazioni del cristianesimo primitivo degenerato da secoli; ma di regola dietro l’esaltazione religiosa si nascondevano interessi mondani molto forti». In una nota, Engels abbozza un interessante confronto tra la funzione ideologica della religione islamica dopo la sua iniziale ed esplosiva (rivoluzionaria) espansione geografica, e la funzione ideologica della religione cristiana a partire dal dissolvimento della società medievale: 

«L’islam è una religione fatta per orientali, specialmente per gli arabi; quindi, da una parte, per città che esercitano commercio e industria, e dall’altra per beduini nomadi. Ma qui sta il germe di un urto che si ripete periodicamente. Le città diventano ricche, sfarzose, rilassate nell’osservanza della “legge”. I beduini, poveri e, per povertà, austeri di costumi, guardano con invidia e desiderio a queste ricchezze e a questi piaceri. Allora si raccolgono sotto un profeta per castigare i peccatori, per restaurare il rispetto per la legge e per la vera fede, e per intascare come ricompensa i tesori degli infedeli. Dopo cent’anni essi naturalmente si trovano proprio a quel punto deve stavano quegli infedeli; una nuova purificazione della fede è necessaria, sorge un nuovo profeta, e il gioco ricomincia. […] Sono tutti movimenti scaturiti da cause economiche e che hanno un travestimento religioso; ma, anche se vittoriosi, lasciano sopravvivere intatte le vecchie condizioni economiche. tutto resta quindi come prima e l’urto diventa periodico. Nelle sollevazioni popolari dell’occidente cristiano, al contrario, il travestimento religioso serve solo come bandiera e come maschera per l’assalto a un ordinamento economico antiquato; questo, alla fine, viene rovesciato, ne sorge uno nuovo, il mondo va avanti» (4).


L’Occidente cristiano genererà la Rivoluzione borghese, con tutto quello che un simile evento ha presupposto e posto in termini economici, politici, scientifici, psicologici, in una sola ed esaustiva parola: sociali; l’Oriente islamico non conoscerà mai un evento rivoluzionario paragonabile a quello che ha dischiuso nel modo più radicale le porte all’accumulazione capitalistica nei Paesi occidentali, alla loro industrializzazione. Nei Paesi musulmani  la modernizzazione capitalistica sarà compiuta per l’essenziale dallo Stato, e comunque sotto lo stretto e diretto controllo dello Stato, secondo lo schema delle “rivoluzioni dall’alto”, non raramente innestate sul corpo del processo di decolonizzazione.

In ogni caso, a mio avviso sbaglia grossolanamente chi individua proprio nell’Islam, o in una sua declinazione particolarmente retriva (“anticapitalista”), la causa del mancato decollo borghese dell’ambiente islamico.

 «Non dalla religione musulmana, ma da ben altri fattori dipende il fatto che la borghesia [arabo-islamica] non abbia conservato o aumentato la potenza dei primi secoli dell’egira, che negli Stati dominati da una gerarchia aristocratica e militare essa abbia potuto pesare solo limitatamente sul potere politico, che la città non sia riuscita a dominare in misura sufficiente la campagna, che il capitale industriale non si sia sviluppato quanto in Europa o in Giappone, che la primitiva accumulazione capitalistica mai abbia raggiunto i livelli europei. Si possono rinvenire fattori permanenti, fondamentali, come la relativa densità della popolazione, che fornisce una manodopera abbondante e a buon mercato e non incita quindi a ricorrere a perfezionamenti tecnici; o come la millenaria tradizione di uno Stato forte richiesto in molti paesi orientali dalla produzione agricola, che dipende in larga misura dalle opere pubbliche. A tutto ciò è certamente necessario aggiungere l’imprevedibile concatenamento di circostanze storiche. E tra queste, notevole importanza ebbero le onde d’invasione proveniente dell’Asia centrale. […] Non esiste un’economia musulmana o cristiana, cattolica o protestante, francese o tedesca, araba o turca, dionisiaca o apollinea. Queste, tutt’al più, possono essere coloriture superficiali delle scelte economiche fondamentali. Le caratteristiche nazionali possono cagionare variazioni interessanti al modo di funzionamento dei sistemi: ma non possono, da sole, trasformare i sistemi nei loro tessuti fondamentali» (5). 

Con ciò è forse esaurito il quadro delle cause storico-sociali che spiegano il divario apertosi fra Occidente cristiano e Oriente musulmano a partire dal XVI secolo e resosi evidente alla fine del secolo successivo? Certo che no! Ma tra le tante cause di quel divario, il cui retaggio storico stiamo ancora scontando, il “fattore religioso” è davvero quello che spiega di meno e che, piuttosto, va spiegato alla luce del complessivo – e maledettamente complesso – quadro sociale di riferimento. E poi, ci si può forse stupire se dopo l’epopea eroica dell’egira abbia iniziato a circolare l’utopia di un’età dell’oro (riferita alla primitiva comunità islamica) fra gli strati sociali più poveri del “popolo musulmano”, fra i «dannati della Terra» sfruttati, maltrattati e avviliti dall’ostentazione di una ricchezza sempre più straripante ed esclusiva? Inutile dire che l’elaborazione di quel mito fu opera degli intellettuali del tempo, non importa se animati da cattiva o da ottima fede, e non certo della rozza massa dei diseredati, checché ne pensi il “marxismo” – almeno nella miserabile versione offerta da Belardelli.

«Noi abbiamo l’abitudine di pensare al Medioevo in modo molto eurocentrico. Secondo il quale il Medioevo è un periodo di stasi, uno iato tra il declino della civiltà mediterranea e il mondo moderno. Ma la transizione veramente importante non è stata l’Europa feudale semi-barbara, è stata la grande civiltà dell’Islam, non solo la più grande civiltà del suo tempo, ma forse la più grande civiltà della Storia. Una civiltà che comprendeva una moltitudine di gruppi etnici ed era molto creativa e ricettiva, con uno slancio verso l’innovazione e la sperimentazione che era sconosciuto anche ai greci. Stiamo parlando di una civiltà tollerante per lo standard dei tempi, in cui cristiani ed ebrei potevano vivere in pace sotto il governo islamico, anche se non con eguali diritti, cosa che non aveva certo riscontro nell’Europa medievale cristiana. Poi improvvisamente le cose cambiarono, e gli islamici si trovarono superati da quelli che consideravano i barbari d’Europa, anche se è un improvvisamente molto relativo. Fu allora che cominciarono a chiedersi in che cosa avessero sbagliato. Il fallito assedio di Vienna del 1683, registrato dagli storici islamici come “una catastrofe”, portò al trattato del 1699 in cui i cristiani vittoriosi per la prima volta dettarono le condizioni all’Impero Ottomano. Da allora, per 300 anni, il mondo musulmano è in ritirata ovunque, e questo ha portato a un sentimento generale di sconfitta e di vergogna per esser dominati da miscredenti. Sono convinto che sia questa la vera origine della rabbia con cui ci confrontiamo oggi». 

Così Bernard Lewis in un’intervista rilasciata l’11 settembre 2002 al Corriere della sera. Come si vede Lewis rimane ancorato a una concezione superficiale e idealista del processo sociale mondiale, e difatti egli trascura di menzionare l’ineguale sviluppo del Capitalismo nelle diverse aree del pianeta (ma anche nelle singole nazioni), le rivoluzioni borghesi che in Europa (in primis, Olanda, Inghilterra e Francia) minarono alle fondamenta i vecchi rapporti sociali precapitalistici e le istituzioni politiche a essi corrispondenti, il colonialismo, l’imperialismo e molto altro ancora. Ciò che dunque rimane, è la schiuma ideologica del processo storico-sociale («Durante la guerra Iran-Iraq degli anni ’80 entrambi gli schieramenti fecero largo uso di propaganda in cui si accennava a fatti accaduti nel Settimo Secolo, sicuri di essere capiti dalla gente comune»), la quale ovviamente ha la sua importanza (per dirla con Marx, anche l’ideologia «diviene una forza materiale appena s’impadronisce delle masse»), ma solo se riferita al contesto generale, sociale e geopolitico, appena abbozzato. 

Solo così si può capire, ad esempio, l’uso ideologico/strumentale che le classi dominanti del mondo musulmano hanno fatto in passato e continuano a fare del «sentimento generale di sconfitta e di vergogna per esser dominati da miscredenti». Purtroppo sono le masse dei nullatenenti quelle più esposte e sensibili alla retorica populista a sfondo laico (tipo «socialismo arabo») o religioso (tipo khomeinismo o fondamentalismo sunnita). Tenere in caldo il fanatismo religioso delle masse, per poterlo mobilitare alla bisogna anche (soprattutto!) contro gli interessi delle stesse masse, è cosa che offre mille esempi, nel lontano come nel recente passato (pensiamo alla guerra a sfondo etnico-religioso che insanguinò la ex Jugoslavia negli anni Novanta), e a qualsiasi latitudine. 

Detto en passant, l’uso della questione palestinese che i regimi del Vicino e del Medio Oriente hanno fatto dal Secondo dopoguerra in poi si inscrive perfettamente in questo quadro, e dispiace che molti “anticapitalisti” occidentali hanno dato credito alla demagogia “antimperialista” di quei regimi.




Che concreti interessi materiali e politici possano trovare nell’ideologia, anche a carattere religioso, un potentissimo strumento di difesa e di espansione è cosa che supera le capacità di comprensione di non pochi intellettuali, la cui totale assenza di profondità concettuale e di dialettica li porta a una lettura volgare e macchiettistica di quella che essi credono sia la “concezione materialistica della storia”. «I terroristi erano figli addirittura delle classi agiate»: come se il malessere, il disagio, l’estraniazione (il non sentirsi mai a casa propria) e altro ancora fossero una triste prerogativa degli strati sociali più brutalizzati sul piano economico dal Dominio! Come se la disumanità di questo mondo non toccasse in qualche modo, anche solo potenzialmente, tutti gli individui, a partire da quelli che circostanze di vario genere hanno reso più sensibili e vulnerabili. Con ciò non penso neanche lontanamente di tracciare la biografia dei terroristi cosiddetti islamici, cerco piuttosto di ridicolizzare, attraverso una riflessione d’ordine generale, il concetto di “disagio sociale” che hanno in testa gli intellettuali che prendono di mira il “materialismo storico” senza averne capita una sola tesi.

Il già citato Cardini mostra di saperla assai più lunga di Belardelli sulle cose di questo mondo hobbesiano: 

«Il Bangladesh è, al tempo stesso, uno dei paesi a maggior tasso di sviluppo (è il secondo esportatore al mondo di prodotti di abbigliamento, con uno sviluppo annuo del PIL di oltre il 7%). Come fa notare Alberto Negri su “Il Sole” di stamattina, l’export di tessile e abbigliamento bengalesi è passato in quindici anni dal poco meno di 5 miliardi di dollari del 2001 a oltre 25 nel 2015. Si è parallelamente sviluppata nel paese una ricca e potente oligarchia imprenditoriale: nello stesso parlamento, fatto di 300 membri, almeno il 10% (una trentina) possiede delle fabbriche (ma in realtà sono di più, col sistema dei prestanome). Imprenditori e mediatori commerciali sono diventati sproporzionatamente ricchi, possiedono barche da diporto e mandano i figli a studiare in prestigiose università estere. Ma questo è il punto. Questi straricchi sono i “rappresentanti del popolo”, i garanti del suo sviluppo democratico e degli standards della sua modernizzazione all’occidentale. La stragrande maggioranza del popolo rappresentato da questi signori, però, è poverissima, e – continua Negri – “sopravvive con salari irrisori e un reddito medio pro capite annuo inferiore ai 2000 dollari” (circa 6 dollari al giorno, 180 al mese: anche se in Africa c’è di peggio…). Ma in realtà molti guadagnano meno: esistono operaie che lavorano 14 ore al giorno per 40 euro al mese (6). In queste condizioni, in altri tempi, si sarebbe sviluppato forse un forte movimento sociale: ma oggi le rivendicazioni dei diritti dei lavoratori sono ridotte a zero, e ciò è stato senza dubbio una grande vittoria del capitalismo internazionale e delle lobbies. Ma il prezzo che stiamo pagando per l’abnorme arricchimento di una minoranza è questo: il radicarsi di un sempre più forte e feroce jihadismo che dice di cercar la giustizia nel nome di Dio. Se c’illudiamo di batterlo solo con misure militari, ci sbagliamo. Ed è del tutto cretino ribattere che gli attentatori del primo luglio erano tutti di famiglia abbiente (con ciò sottintendendo che il movente sociale non ci sarebbe). È regola storica che le avanguardie rivoluzionarie appartengano spesso alle classi dirigenti: vi siete dimenticati dei principi Bakunin ***e dei principi Kropotkin della Russia zarista? Non avete mai sentito parlare della ribellione dei figli contro i padri? Non vi sembra che proprio la partecipazione di membri di strati sociali privilegiati (e allevati all’occidentale) a movimenti eversivi sia una prova in più del fatto che i “valori” occidentali stanno fallendo mentre la contraddizione tra le chiacchiere sulla pace e la libertà e la realtà dello sfruttamento dei popoli è sempre più stridente?» 


Qui la riflessione di Cardini sembra poter convergere con quella di Belardelli, il quale infatti scrive: «Il fondamentalismo islamico si presenta così come l’ultima, e in un certo senso al momento unica, ideologia radicalmente anticapitalistica e antioccidentale», .Donatella Di Cesare (Corriere della Sera) è dello stesso avviso: «A contrastare l’egemonia del sistema capitalistico non è più solo la sinistra internazionalista. Lungi dall’essere il terzo incomodo, l’islam appare l’unica potenza capace di imporre un universalismo militante che si ripromette di essere l’avvenire stesso di questo mondo».

Parlare di «ideologia radicalmente anticapitalistica» a proposito dell’Islam, anche nella sua versione radicale-fondamentalista, rasenta il ridicolo, e ciò peraltro ci dice ancora una volta quanto indigente (faccio dell’eufemismo, è chiaro) sia il concetto di “anticapitalismo” che hanno in testa la generalità degli intellettuali e dei politici. Di “anticapitalismo” si parlò anche a proposito della “rivoluzione khomeinista” di fine anni Settanta, e sappiamo com’è andata a finire; non pochi “marxisti” occidentali delusi dall’«imborghesimento» dei tradizionali partiti “comunisti” si gettarono a corpo morto nella nuova/ennesima – supposta – «esperienza rivoluzionaria»salvo poi portare a bilancio l’ennesima disillusione, senza possedere peraltro le capacità di comprendere la radice teorico-politica dei loro abbagli “rivoluzionari”, cosa che li ha portati a reiterare i vecchi errori.




Scrive Richard Falk, ricordando la sua entusiastica adesione alla «Rivoluzione Islamica» divampata in Iran nel 1978 e culminata con la cacciata dello Scià il 17 gennaio 1979: 


«Sono ritornato dall’Iran con un senso di eccitazione per quello a cui avevo assistito e sperimentato, con la sensazione che il paese avrebbe potuto dare al mondo un nuovo e necessario modello politico progressista che univa la compassione per il popolo nel suo complesso a un’identità spirituale condivisa. […] C’era una sensazione straordinaria di unità e di solidarietà sociale che sembrava coinvolgere tutta la popolazione, in quel momento, superando divisioni di classe e di etnie, e portando perfino quelli che si identificavano in un’appartenenza religiosa, a legarsi con elementi laici liberali. È stato un momento di mobilitazione storica, e sebbene non si potesse conoscere il futuro, l’energia positiva che veniva rilasciata e che abbiamo sperimentato era notevole. Si sentiva quando si partecipava a dimostrazioni gioiose di vari milioni di persone a Tehran per festeggiare la partenza dello Scià e la vittoria della rivoluzione. Questa effusione di affetto e felicità dava credibilità alle nostre speranze che l’Iran come società liberata  sarebbe progredita per creare una forma umana e caratteristica  di modo di governare. È stato non molto tempo dopo che quello che sembrava così promettente degenerò in un processo che era profondamente inquietante, con gli oppositori maltrattati gravemente e l’emergere di una nuova autocrazia a base religiosa che sembrava così priva di scrupoli come quella l’aveva preceduta.  Khomeini è apparso come il capo supremo di questo tipo di regime brutale. […] È stato un errore di percezione, una forma estrema di  pio desiderio,  sottovalutare o non essere riusciti prima a comprendere le potenzialità negative della Rivoluzione Iraniana, quando ho visitato il paese alle fine del 1978, e di nuovo all’inizio del 1980  dopo la crisi degli ostaggi [statunitensi]? O è stato giusto dare voce alle potenzialità positive che sembravano apparire in modo così irrefutabile durante quei momenti di eccitazione e di unità collettive, come sono state anche espresse, dalla maggior parte delle persone con le quali ho parlato durante la visita in Iran del 1979 in varie città del paese?  Žižek e Badiou hanno ragione di separare così nettamente la visione rivoluzionaria dai suoi reali risultati umani penosi, o è un esempio incriminante della irresponsabilità del pensiero radicale che apprezza in modo infantile gli ideali rivoluzionari mentre ignora la saggezza conservatrice  del pensiero conservatore serio che ci avverte dei risultati diabolici  di ogni sforzo di abbandonare  improvvisamente le istituzioni già esistenti e le relazioni tra classi? La nostra specie è destinata a vedere sempre distrutti i suoi sogni di un futuro giusto e sostenibile a causa degli effetti deformanti di lotte a favore o contro nuove intese della autorità di governo e dei rapporti tra classi? In altre parole, siamo condannati a bandire i nostri sogni dal dominio della politica responsabile e limitare i nostri sforzi a iniziative riformatrici marginali? […] Žižek cerca di distinguere l’adeguatezza dell’entusiasmo e del desiderio, e la reale deformità degli eventi. Facendo questa valutazione, Žižek condivide il punto di vista del filosofo francese Alain Badiou, e del drammaturgo Samuel Beckett: ”Meglio fare un disastro per fedeltà all’evento che un non-essere di indifferenza verso l’evento. Si può continuare a migliorare nel fallimento, mentre l’indifferenza ci sommerge sempre più profondamente nel pantano dell’imbecillità”». 



Mi scuso con il lettore per l’ennesima lunga citazione.

Mi chiedo: è corretto porre la questione nei termini di una scelta tra «fedeltà all’evento» e «indifferenza verso l’evento»? Non si tratta piuttosto, per un soggetto che non vuole inseguire l’evento, che non vuole esserne alla coda, di capire innanzitutto la natura storica, politica e geopolitica dell’evento di cui si tratta? Non si può essere critici verso un evento senza peraltro sottovalutarlo né, ancor meno, ignorarlo solo perché non possiamo influenzarlo direttamente?

Nel 1978 avevo sedici anni, già l’anno prima avevo deciso di essere un “marxista rivoluzionario” e le manifestazioni oceaniche delle masse iraniane non potevano dunque essermi indifferenti. E difatti ne ero entusiasta, letteralmente (scrissi anche una specie di poesia intitolata Il pavone maledetto, dedicata ai giovani iraniani massacrati dall’esercito nelle strade di Teheran), benché non comprendessi nel loro autentico significato storico, sociale e geopolitico (vedi il legame del regime iraniano d’allora con gli Stati Uniti, Israele e il Sudafrica) quegli eventi e li seguissi dalla televisione. E anch’io rimasi sconcertato e deluso dalla bruttissima piega che la “rivoluzione iraniana” prese ben presto: anche esteticamente l’Ayatollah Khomeini urtava non poco la mia sensibilità “eurocentrica”!  Ma avevo pur sempre sedici anni! A un ragazzino neofita della “politica rivoluzionaria” si può senz’altro perdonare l’entusiasmo poco fondato sul piano dell’analisi politica e della prospettiva storica. Insomma, avevo l’età giusta per sbagliare. 

Poi, col tempo, scoprii che personaggi molto più grandi di me, e che davano del tu (così almeno si diceva) al “marxismo” (vedi Foucault) si erano lasciati incantare dalla “rivoluzione iraniana” esattamente come dei ragazzini digiuni di teoria e di prassi. Intendo dire che un approccio autenticamente critico-radicale alla “rivoluzione iraniana” era allora possibile e avrebbe permesso al “marxista” occidentale di fondare in modo adeguato una posizione politica sul processo sociale iraniano di trentotto anni fa – Dio come passa il tempo! Quell’approccio, ad esempio, avrebbe permesso di individuare e denunciare il ruolo che ebbero il partito stalinista Tudeh e la piccola borghesia organizzata nei Fedayn nell’opera di sabotaggio delle rivendicazioni economico-sociali che provenivano dal proletariato e dalla massa dei contadini poveri, e che mal si accordavano con il fronte unito nazionale voluto dalle forze politiche laiche e religiose dell’Iran interessate unicamente a un cambio di regime politico-istituzionale.





Insomma, non si tratta affatto di gettare secchi di acqua fredda sull’entusiasmo “rivoluzionario” dei protagonisti e degli spettatori di un Evento, ma piuttosto di dotare quell’entusiasmo di un’adeguata capacità critico-analitica, per evitare che la sua cecità porti acqua al mulino del Dominio, così astuto e pronto quando si dà l’occasione di “mettere a valore” energie intellettuali, fisiche e psichiche che non riescono a bussare alla giusta porta.

«Foucault aveva individuato il potenziale utopico di quella rivoluzione, la politica non è mai un mero calcolo di interessi strategici, ma è l’affermazione di un “Evento rivoluzionario”. L’errore iniziale di valutazione Foucault l’ha riconosciuto. Il khomeinismo non era una politica dell’emancipazione. Ma il suo problema era un altro: come si fa a creare un territorio liberato che sfugge alla presa dell’ordine esistente?» (7).

Problema quanto mai complesso, ostico, importante, almeno per chi si pone sul terreno della rivoluzione anticapitalista. Vero è che l’approccio storico-politico dell’intellettuale sloveno agli eventi (penso alla sua interpretazione dello stalinismo, alla sua adesione al maoismo, alla sua partecipazione alla cosiddetta “sinistra radicale” e così via) spesso non aiuta a orientare nella giusta direzione (anzi!) il pensiero che aspira all’autentica radicalità.

Concludo! Quando leggo di «avanguardie rivoluzionarie» (Cardini), di «ideologia radicalmente anticapitalistica» (Belardelli) e di «sinistra internazionalista» che sarebbe rimasta spiazzata dal radicalismo universalista dell’islam militante (Di Cesare) non posso fare a meno di sottoporre a critica ogni singola parola, ogni singolo concetto. È d’altra parte vero, dal mio punto di vista tragicamente vero, che il mondo continua a denunciare la vacanza della soggettività rivoluzionaria (delle classi dominate e sfruttate che si costituiscono in «partito rivoluzionario», per dirla con l’Ayatollah di Treviri), e questo però non ha nulla a che fare con la «ideologia radicalmente anticapitalistica» e con la «sinistra internazionalista» (Žižek? Varoufakis? Toni Negri?) evocate in questo articolo.





note
(1) «Mentre l’Occidente discetta di al-Qa’ida e Is, nell’attacco al ristorante di Dacca emergono le responsabilità di organizzazioni terroristiche locali. Il jihadismo bengalese ha una lunga storia e amicizie importanti in Arabia Saudita e Pakistan. Il marchio del califfato garantisce un ritorno mediatico senza precedenti – e forse un nuovo giro di finanziamenti» (F. Marino, Limes, 5/07/2016).
(2) F. Engels, Per la storia del cristianesimo primitivo, 1894, in Sulle origini del cristianesimo, p. 52, Editori Riuniti, 1975.
(3) Scriveva il “giovane” Marx: «Il fondamento della critica religiosa è: l’uomo fa la religione; e non la religione fa l’uomo. E veramente la religione è la coscienza e il sentimento che ha di se stesso l’uomo, il quale non è giunto ancora al dominio di se stesso o l’ha nuovamente perduto. Ma l’uomo non è niente di astratto, un essere rannicchiato fuori del mondo. Chi dice: “l’uomo”, dice il mondo dell’uomo, Stato, società. Questo Stato, questa società producono la religione, una capovolta coscienza del mondo, perché essa è un mondo capovolto» (K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione, in La questione ebraica, p. 93, Newton, 1975). Di qui l’invito marxiano a non preoccuparsi tanto dei «fiori immaginari della catena», dell’«oppio» che almeno lenisce i dolori della «creatura oppressa», ma della catena stessa, del mondo capovolto (perché le condizioni oggettive dominano l’uomo, e non viceversa) fondato su rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, e dunque radicalmente e necessariamente disumani e disumanizzanti.
(4) F. Engels, Per la storia del cristianesimo primitivo, pp. 18-19.
(5) M. Rodinson, Islam e capitalismo, p. 79, Einaudi, 1968.
(6) Il crollo, nel 2013, della fabbrica di prodotti tessili di Dhaka portò per qualche giorno al centro dell’attenzione dei media mondiali le spaventose condizioni di vita e di lavoro dei nullatenenti del Bangladesh. «Millecentoventisette. Le ricerche si sono fermate qui, la contabilità si è arrestata a questo spaventoso numero di vittime, certificando la più grande tragedia industriale della storia del Bangladesh. Inutile proseguire, impossibile ripetere il miracolo del 14 maggio, quando una donna fu trovata viva sotto le macerie, diciassette giorni dopo il crollo dell’edificio Rana Plaza, il 24 aprile, a Savar, periferia di Dacca. Un immobile fatiscente di otto piani, di cui tre abusivi, in cui lavoravano migliaia di persone, in gran parte donne, impegnate nel fabbricare t-shirt, camicie, jeans, poi venduti sui mercati occidentali con il sigillo di marchi noti al grande pubblico. La storia del tessile in Bangladesh è costellata di incidenti mortali. Trentuno, in gran parte incendi, dall’inizio degli anni Novanta, con un bilancio di circa 1700 morti. All’origine, sempre gli stessi motivi: sicurezza carente, soprattutto in caso di evacuazione, sindacati deboli, proprietari onnipotenti, spesso legati alla politica. Trenta tra i più grandi titolari di fabbriche tessili siedono al Parlamento di Dacca» (Linkiesta). Dopo aver negato recisamente, la Benetton ammise la propria presenza nella fabbrica tessile crollata in Bangladesh. La “trasparenza” si vende bene. Comunicato Ansa: «Tweet del Papa alle persone coinvolte nel crollo: “Unitevi a me nella preghiera per le vittime della tragedia di Dhaka, che Dio conceda conforto e forza alle loro famiglie”». Amen!
(7) Slavoj Žižek.



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