Alberto Bagnai,
ottobre 2016
Nel secondo capitolo scritto per il
libro L’euro est-il mort ? (qui la traduzione del primo), uscito in Francia a ottobre 2016, Alberto
Bagnai risponde in maniera molto ampia, chiara e
argomentata a una domanda cruciale che tutti ci poniamo: ce la farà il
nostro paese a uscire dalla stagnazione economica? Se una risposta positiva
sarebbe molto semplice dal punto di vista economico (eccellenti studi
smascherano i falsi argomenti terroristici dei
media), tuttavia le difficoltà vere sono di ordine politico e
geopolitico, in quanto implicano un profondo ripensamento del ruolo dello stato
nel sistema economico e un accordo a livello internazionale per una nuova
regolamentazione dei mercati finanziari. C’è da augurarsi che per arrivare
a questa inversione di rotta non si debba passare nuovamente attraverso gli
orrori di una guerra mondiale.
Mi è stato chiesto, in quanto economista italiano, di
rispondere a questa domanda: «Come si può salvare l’Italia dalla stagnazione economica?»
Mi sono permesso di modificarla leggermente: «Si può salvare l’Italia
dalla stagnazione economica?»
Facciamo il punto
Per cominciare, facciamo il punto della situazione.
Abbiamo già insistito sul fatto, oggi riconosciuto praticamente da tutti gli
economisti, che la crisi in cui siamo impantanati è dovuta al debito privato.
Questo vale, in misura differente, per tutti i paesi della zona euro, inclusi
quelli che si credono forti (come la Germania)
o che si credevano forti (come la Finlandia).
Ma nel momento in cui scrivo questo capitolo (maggio 2016) l’Italia resta il paese che corre il pericolo maggiore, e
quindi il più pericoloso. I media hanno sollevato il velo di oblio che copriva
la Grecia, i cui
problemi non sono stati risolti dal FMI (cosa
su cui nessuno si faceva illusioni). Ma i problemi italiani, benché meno
evidenti, sono di un ordine di grandezza infinitamente superiore.
I crediti deteriorati delle banche italiane a settembre
2015 hanno toccato i 200 miliardi di euro (ovvero il 115% del PIL greco).[i] L’applicazione
precipitosa e pasticciata delle nuove regole europee sulla risoluzione delle
crisi bancarie a quattro piccole banche regionali nel
novembre 2015, oltre a lasciare sul terreno un morto (un pensionato che era
stato espropriato di 100.000 euro in obbligazioni subordinate), ha provocato
una crisi di borsa nel corso della quale i titoli bancari sono caduti del 40%
nel corso di un mese, gennaio. Questo ha reso più fragile il sistema, e tanto
più perché da una parte era stata incrinata la credibilità della Banca d’Italia, dall’altra la sedicente «Europa»
si era rivelata in tutta la sua asimmetria e il suo imperialismo.
Carmelo Barbagallo, direttore del servizio di
vigilanza della Banca d’Italia,
ha ricordato nell’audizione al parlamento italiano che fino al 2014 la Germania aveva speso 238 miliardi in aiuti di stato alle
sue banche.[ii] E
al contrario, nel novembre 2015, si è vietato al governo italiano, che fino a
quel momento non aveva speso niente, di autorizzare l’impiego di quattro
miliardi del fondo di garanzia interbancario (che non era quindi denaro
pubblico) per salvare le quattro banche regionali. Questi quattro miliardi
rappresentavano appena il 6.6% dei 60 miliardi che l’Italia ha versato al fondo «di salvataggio»
europeo, fondi che non sono serviti a salvare «gli stati»,
ma i loro creditori, vale a dire le banche dei paesi del Nord (nel caso della Grecia, meno del 5% dei fondi sono arrivati al governo
greco).[iii]
L’Italia ha
quindi salvato con il suo denaro pubblico le banche tedesche, ma le è stato
impedito, nel nome della libera concorrenza, di salvare con denaro privato le
sue banche, che non sono in crisi per gli stessi motivi che hanno messo
in crisi quelle tedesche. Mentre queste ultime, infatti, si sono trovate in
difficoltà al momento della crisi dei subprimes, a causa delle loro posizioni
speculative sui mercati internazionali (e hanno risolto il problema con i soldi
dei contribuenti europei), le banche italiane hanno prestato soprattutto alle
aziende. Per questo, soffrono ora le conseguenze di una crisi di domanda, che è
la conseguenza del meccanismo di aggiustamento di cui abbiamo parlato nel
capitolo precedente: l’austerità, che procede a colpi di tagli ai redditi.
Questo meccanismo era perfetto per i grandi capitalisti
italiani, perché attacca esclusivamente i salari. Ma ormai si comincia a
riconoscere che andare a caccia di profitti comprimendo i salari significa
segare il ramo su cui si è seduti: in questo modo si tagliano la domanda
di beni e quindi i futuri profitti, trasformando così i crediti sani in crediti
deteriorati. Mano a mano che le «loro» banche sono colpite, le élite si risvegliano i loro media
diventano critici verso l’Europa.
Un intervento pubblico è inevitabile, ma l’Europa lo impedisce e ci consiglia
di rivolgerci alla Troika,
il che significa sottoporre l’Italia alla «condizionalità» del FMI: «Io ti presto i miei soldi se tu fai questo e non fai quello!».
Questo non soltanto è ingiusto (si fanno due pesi e due misure), ma ugualmente
allarmante, visti i risultati deplorevoli ottenuti dalla Troika in Grecia.
Quello che è stato presentato come un piano di salvataggio è infatti un piano
di aggressione economica che punta a liquidare le imprese più redditizie del
paese, a vantaggio dei capitali stranieri. Gli imprenditori italiani cominciano
a capirlo e a farsi inquieti, ma il paese è diviso e il governo
cincischia.
Fatto il punto, la conclusione è amara. Un intervento
della Troika in Italia è molto probabile: se si verifica, l’Italia si troverà in recessione per la terza volta in
meno di dieci anni. Una mazzata da cui l’economia non si riprenderà mai più (un
“mai più”
storico: diciamo che ci vorrà molta fortuna e almeno cinquant’anni per riprendersi).
La via d’uscita
La soluzione è insieme semplicissima e difficilissima.
È semplicissima dal punto di vista economico: l’Italia dovrebbe uscire dall’euro, cosa che le
permetterebbe sia di ristabilire un tasso di cambio reale compatibile con i
suoi fondamentali macroeconomici, sia di aggiustare il valore dei suoi debiti
esteri. Non entro qui in tutti i dettagli pratici. Eccellenti studi
universitari ci descrivono la storia delle precedenti esperienze di
scioglimento di unioni monetarie,[iv] e
dettagliatissimi studi applicati definiscono le strategie di uscita possibili.[v] Non
solo tutto è già stato detto, ma ogni giorno che passa smaschera i falsi
argomenti dei media.
Ci avevano detto che l’uscita dall’euro avrebbe
provocato, a causa della svalutazione che ne seguirebbe, un’iperinflazione,
dovuta al fatto che l’Italia
dipende dalle materie prime acquistate in dollari. Abbiamo opposto che la
svalutazione necessaria per recuperare la nostra competitività sarebbe intorno
al 25% e che gli studi provano all’unanimità che la svalutazione non si
trasferisce interamente sui prezzi. Ci hanno riso in faccia. Ma poi l’euro si è
svalutato di quasi il 40% rispetto al dollaro: e ci troviamo in deflazione. Ci
hanno ribattuto (giustamente) che è perché i prezzi delle materie prime oggi
sono bassi. Ma è proprio per questo che bisogna uscire subito! Ci avevano detto
che uscire dall’euro avrebbe provocato l’instabilità finanziaria e il
fallimento di banche e imprese. Ma il quadro della situazione attuale che
abbiamo appena tracciato ci dimostra che è proprio restando nell’euro che siamo
incappati in tutto quello che ci era stato promesso che avremmo evitato.
Ci avevano detto che l’uscita avrebbe provocato guerre
commerciali che ci avrebbero penalizzato. Di fatto, le sanzioni inflitte alla Russia per compiacere la Germania hanno danneggiato molte imprese italiane e
francesi, mentre nel frattempo questa stessa Germania prosegue insieme alla Russia il progetto «Nord Stream».
Ci avevano detto… ma basta con le stupidaggini più o meno
interessate dei media: in ogni caso, la disgregazione dell’euro è quello che ci
aspetta. Il punto è capire dopo quanta sofferenza ci si arriverà ed è su questo
che ci si deve porre le domande.
Le domande, in questo caso, sono più facili delle risposte,
perché queste ultime non dipendono solo da noi e pongono enormi difficoltà di
ordine politico.
Il ruolo degli Stati Uniti
In primo luogo, non bisogna illudersi, come fanno i
sedicenti «europeisti»: l’Unione europea non
è un progetto «europeo». Il fatto che vengano proposti come
soluzione ai nostri problemi gli «Stati Uniti d’Europa» dovrebbe farci
capire che Bruxelles opera
se non in nome, sicuramente per conto dei veri Stati Uniti, quelli d’America. Dopo avere vinto la guerra contro i paesi dell’Asse,
gli Stati Uniti avevano
bisogno di stabilire una postazione avanzata stabile in Europa, che potesse contenere quella che era vista (e ai
tempi era veramente) come una minaccia seria: il patto di Varsavia. Per farvi fronte, bisognava favorire e finanziare
l’integrazione economica e politica europea: e bisognava farlo in misura
sufficiente perché l’Europa
non si disgregasse e restasse una base logistica efficace per la Nato, ma non in misura eccessiva, perché l’Europa non si emancipasse del tutto.
Mi affretto ad aggiungere che, per quello che mi
riguarda, dato che sono nato nel 1962, ritengo che per la mia generazione
nascere da questa parte della cortina di ferro sia stata una fortuna. Il mio
discorso non è quindi «antiamericano» a
priori. Semplicemente, riconosco che gli europei
non sono pienamente padroni del loro destino. L’intervento degli Stati Uniti durante la crisi greca del 2015, così come
durante la campagna sulla Brexit
del 2016 basta a provarlo. Per gli Stati Uniti
l’euro è anche una questione geostrategica, da cui ricavano tre vantaggi: in
primo luogo, la moneta unica, creando una serie di tensioni economiche
permanenti, impedisce all’Europa di
fare loro seriamente concorrenza; in secondo luogo l’Unione Europea, vale a dire lo stato fittizio che ci si
dovrebbe affrettare a costruire per giustificare l’esistenza della moneta
unica, è già un interlocutore unico in materia economica per gli Stati Uniti, cosa che semplifica il lavoro alle lobby
americane (lo si vede bene nelle negoziazioni sul TTIP); in terzo luogo, questo simulacro di Unione
fornisce un supporto logistico alla Nato.
I vantaggi per l’establishment americano sono quindi
importanti, ma non sono esenti da rischi politici ed economici. Martin Feldstein, considerato uno dei dieci economisti
viventi più autorevoli, già direttore del laboratorio di economia di Harvard e direttore del National Bureau for
Economic Research, l’aveva chiaramente dichiarato nel 1997: «Invece di aumentare
l’armonia intraeuropea e di favorire la pace mondiale, è più verosimile che il
passaggio all’unione monetaria e all’unione politica che ne seguirà sia
destinato ad aumentare i conflitti in Europa».[vi] La
disgregazione politica dell’Europa
aiuterebbe gli Stati Uniti a conservare
la loro supremazia economica, ma creerebbe necessariamente qualche problema
strategico (la posizione americana durante la crisi greca del 2015 era con ogni
evidenza motivata dalla volontà di evitare che la Grecia finisca sotto l’influenza russa).
Ma ci sono anche dei rischi economici. Nell’estate del
2015 si è venuto a sapere che nel 2010, al momento della definizione del
programma del FMI per la Grecia, i membri della direzione indiano e brasiliano si
erano opposti, perché era già loro chiaro quello che oggi è chiaro a tutti: che
la partecipazione del Fondo monetario sarebbe
stata uno spreco di denaro, a esclusivo vantaggio delle banche creditrici (che
non erano né brasiliane né indiane).[vii] Per
quanto tempo si potrà domandare a un brasiliano di dare il suo consenso al
trasferimento di una somma che si avvicina al 6% del PIL brasiliano a un paese
che occupa una superficie pari all’1,5% di quella del Brasile? L’Unione europea rischia di provocare tensioni tra gli Stati Uniti e altri loro importanti alleati, per i quali le questioni
strategiche europee sono meno importanti e meno facili da capire.
In più, la situazione europea non è priva di
ripercussioni sull’economia mondiale. Il PIL europeo in prezzi correnti nel
2000 costituiva il 30% del PIL mondiale: oggi ne rappresenta il 20%. il
rallentamento della crescita in quella che era una delle parti più prospere del
globo ha con ogni evidenza conseguenze sulla crescita mondiale. Oggi si parla
di «stagnazione
secolare». Si dovrebbe piuttosto parlare di suicidio della zona euro.
Certo, mano a mano che la crisi si prolunga, l’Europa si impantana nell’insignificanza e l’asse della
politica economica americana oscilla verso l’oceano pacifico. Ma l’eutanasia
della classe media europea potrà essere compensata, in termini di potere
d’acquisto sui mercati internazionali, dall’entrata in campo delle classi medie
dei paesi emergenti?
Il salvataggio dell’Italia
dipende anche dalla risposta che sarà data a questa domanda.
Il lavoro nel XXIo secolo
Questa risposta, essa stessa, dipende dall’evoluzione del
capitalismo globalizzato. Si è ripetuto ormai a sufficienza che il problema
della zona euro è che, scaricando sui salari il peso dell’aggiustamento agli
shock macroeconomici, la moneta unica condanna l’Europa alla deflazione, e che nei paesi deboli come l’Italia questo sfocia in una crisi cronica di domanda (lo
stesso fenomeno che si è potuto osservare nel Sud del nostro paese per
decenni). Tuttavia, il problema del calo dei salari non è limitato all’Europa: questi effetti dell’euro si inseriscono in una
tendenza dell’economia mondiale, sulla quale è necessario riflettere. Sarebbe
infatti utopistico pensare che un paese (che sia l’Italia o la Francia)
possa andare da solo in senso contrario alle grandi correnti della Storia.
Dall’inizio degli anni ’80 la quota dei redditi legata ai
salari ha iniziato a decrescere un po’ in tutto il mondo. Le diseguaglianze
stanno dunque aumentando, ma nel dibattito politico questo non ha preoccupato
troppo, fino a che la crisi mondiale non ha trasformato la decrescita relativa
dei salari in decrescita assoluta. Una volta che la torta ha smesso di
aumentare, il fatto che la fetta destinata ai salari stesse riducendosi è
emerso in tutta la sua evidenza. Hanno allora fatto la loro comparsa novelli Robin Hood, per dirci che bisognava togliere ai ricchi
per dare ai poveri: la causa delle disuguaglianze nei redditi sarebbe dovuta al
fatto che l’ 1% più ricco della popolazione non paga abbastanza tasse.
Si tratta di una spiegazione demagogica, che non risponde
a due domande fondamentali: come hanno fatto i ricchi ad accumulare le loro
ricchezze? E chi ci garantisce che i governi che sono in ogni caso sensibili ai
grandi interessi economici, se non addirittura controllati da questi ultimi,
agiranno nell’interesse dei poveri? Non basta non essere tassati a valle, per
diventare ricchi: ci vuole soprattutto una distribuzione ingiusta dei redditi a
monte. Uno stato controllato dai ricchi potrebbe in primo luogo consentire a
questi ultimi di nascondere le loro ricchezze altrove: le pretese ricchezze da
cui cavare contributi sarebbero dunque quelle della classe media, soprattutto
il patrimonio immobiliare (come avviene in Italia).
Di più, uno stato simile potrebbe benissimo togliere ai
ricchi per dare ai ricchi: nulla garantisce che ciò che è ricavato dalle
imposte sulla ricchezza sarebbe destinato al sostegno dei redditi più deboli.
Queste proposte non sono quindi altro che demagogia, d’altra parte molto
efficace, il cui scopo è distogliere l’attenzione dal vero problema, che non è
che le imposte sull’1% dei più ricchi sono troppo leggere, ma che sono state
globalmente compresse le entrate del 99% dei più poveri (ed è questo il
fenomeno che ha consentito all’1% di diventare più ricco).
Le spiegazioni demagogiche di questa compressione delle entrate
abbondano: la colpa sarebbe della concorrenza della Cina (ma quando le diseguaglianze hanno cominciato a
crescere, all’inizio degli anni ’80, il PIL della Cina era inferiore a quello dell’Italia, e lo è rimasto fino alla metà degli anni ’90);
oppure, al progresso della tecnologia (ma questa si è evoluta in modo costante,
come dimostrano i dati sulla produttività, che è cresciuta regolarmente, mentre
i salari hanno smesso di crescere all’inizio degli anni ’80). Alimentare l’odio
contro un nemico esterno e lontano, soffiare sul fuoco del luddismo: sono
strategie di comunicazione semplici e politicamente efficaci. Tuttavia, non
convincono pienamente, perché non spiegano una circostanza fondamentale: ovvero
perché i salari si siano arrestati precisamente all’inizio degli anni ’80.[viii]
In questo periodo si è verificato un cambiamento di
regime fondamentale, che, questo sì, spiega bene perché il capitale ha preso il
sopravvento sul lavoro. Questo avvenimento è stato la liberalizzazione dei
mercati finanziari, sia a livello nazionale (con l’affermazione del principio
di indipendenza della banca centrale) sia a livello internazionale (con la
liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitale). È un mutamento di
regime improvviso, che coincide con l’arrivo al potere di Reagan negli Stati Uniti
e della Thatcher in Inghilterra, e che si traduce in misure di
deregolamentazione prese per la maggior parte tra il 1975 e il 1984.
La coincidenza temporale non è di per sé sufficiente a
stabilire un rapporto di causalità, ma molti argomenti provano che l’apertura
dei mercati dei capitali ha contribuito alla esplosione delle diseguaglianze
nei redditi.[ix]
Due di questi argomenti sono legati alle
delocalizzazioni, rese possibili dalla mobilità internazionale dei capitali. In
primo luogo, le delocalizzazioni accrescono il potere contrattuale dei
capitalisti e permettono loro di imporre salari più bassi, con la minaccia di
andare altrove. In secondo luogo, se la minaccia si realizza, dato che il
lavoro specializzato è complementare al capitale, la delocalizzazione in un
paese relativamente meno avanzato di alcune attività produttive (il cui
contenuto tecnologico è relativamente basso per il paese avanzato e alto
per il paese meno avanzato) aumenta l’offerta di lavoro (relativamente) non
specializzato nel paese avanzato e la domanda di lavoro (relativamente)
specializzato nel paese meno avanzato, e attraverso questa distorsione aumenta
dappertutto le diseguaglianze di salario.
Un terzo argomento è legato alle crisi della bilancia dei
pagamenti. Quando i capitali non sono liberi di circolare da un paese
all’altro, e quindi non si possono accumulare debiti presso creditori
esteri, non ci possono essere – per definizione – crisi di debito estero.
Questo significa anche che quando i capitali stranieri non possono finanziare
il deficit della bilancia dei pagamenti di un paese, questo paese non è esposto
al rischio di una «interruzione improvvisa» (sudden stop) di questi
flussi finanziari, e dunque di una crisi della bilancia dei pagamenti. Studi
recenti mostrano che queste crisi lasciano «cicatrici» permanenti nella distribuzione dei redditi.
L’esperienza italiana è molto eloquente a questo
proposito: le due ultime crisi (quella del 1992 e quella del 2011) sono state
utilizzate come pretesto per riformare il mercato del lavoro e il sistema
pensionistico. Riforme importanti, che sono state realizzate d’urgenza, sotto
la pressione dei giornali che esibivano titoli come «FATE PRESTO» (a caratteri
cubitali), per sottolineare che le riforme dovevano essere fatte in velocità e
guidate da un solo principio: ridurre il costo del lavoro e il ruolo dello
stato nell’economia, per rendere il paese «più competitivo» e riequilibrare la
bilancia dei pagamenti. Non è un caso se la quota salari nei redditi non è
diminuita nei paesi dell’Ocse che
non hanno sofferto di crisi finanziarie.[x]Queste,
nel mondo contemporaneo, sono altrettanti momenti di lotta di classe, nei quali
la logica dell’urgenza dà al capitale un vantaggio tattico rispetto al lavoro.
L’apertura senza controllo dei mercati finanziari,
l’integrazione finanziaria (che in Europa si
chiama «euro») è dunque alla base delle diseguaglianze.[xi] Queste,
a loro volta, sono alla base dell’indebitamento. Infatti, quando un sistema
capitalistico non distribuisce abbastanza valore al lavoro, è necessario che i
lavoratori si indebitino (attraverso l’intermediazione dello stato o delle
banche), perché i salari non bastano più a finanziare la domanda di beni
prodotti (senza la quale si andrebbe incontro a una crisi di sovrapproduzione).
Ci troviamo quindi di fronte a un ciclo, in cui la
liberazione dei mercati finanziari produce diseguaglianze, che costringono
all’indebitamento, che provoca crisi finanziarie, che causano maggiori
diseguaglianze, che a loro volta producono un ulteriore indebitamento. Un
circolo vizioso che non consente vie di fuga.[xii]
Si può dunque concludere che nessun paese si potrà
salvare dalla stagnazione, né nell’eurozona né altrove, fino a che non si
ristabilirà un accordo internazionale sulla necessità di regolamentare i
mercati finanziari. Questa regolamentazione dovrà necessariamente avere tre
assi portanti: il controllo dei flussi finanziari internazionali; la dipendenza
della banca centrale dal potere esecutivo; la separazione bancaria (vale a dire
la separazione delle attività bancarie che riguardano il risparmio da quelle
delle banche d’affari).
Il primo è essenziale per prevenire le crisi di bilancia
dei pagamenti, il secondo per evitare di sprofondare nella deflazione, il terzo
per limitare i rischi delle attività speculative per l’economia reale. Si
tratta di un cambiamento importante, e non ci si può nascondere una verità
storica inquietante, ovvero che nell’ultima occasione in cui è stato realizzato
ci sono voluti tre ingredienti: una crisi finanziaria mondiale (quella del
1929), una guerra mondiale, e l’emergere di un potente blocco politico in aperta
opposizione al sistema capitalistico. Di queste tre elementi, noi non abbiamo
avuto che il primo, la grande crisi del 2008. Tra il 1929 e il 1939 sono
passati dieci anni. Ci resta poco tempo per evitare il peggio.
Conclusione
Torno quindi alla domanda iniziale: «Si può salvare l’Italia
dalla stagnazione?». Reinserita in un contesto più ampio, quello
della globalizzazione finanziaria, la domanda prende un altro taglio: si
potrebbe realizzare il «keynesismo in un solo paese?» In altri
termini: uscire dall’euro è una condizione necessaria (o, se si vuole, la
disgregazione dell’euro è un evento inevitabile), ma non sufficiente a
ricondurre un’economia pur non trascurabile come quella dell’Italia su un
percorso di crescita equa e quindi stabile.
Per farlo, bisogna anche ripensare al ruolo dello stato nel sistema economico,
sia come soggetto attore (in particolare nel settore del credito e più in
generale nella gestione del circuito del risparmio) sia come soggetto
regolatore.
In un sistema economico sempre più interconnesso, i
grandi arbitraggi tra il mercato, vale a dire la dimensione transnazionale, e
lo stato, vale a dire la dimensione nazionale, richiedono necessariamente uno
sforzo di cooperazione internazionale. Non si può che esprimere ancora una
volta, a guisa di conclusione, la speranza che questa cooperazione possa
incominciare senza attendere una esplosione di violenza.
note
[i] Banca d’Italia, 2016. Supplementi al
bollettino statistico – Moneta e banche, n. 22, XXVI0 anno, 10
maggio 2016,
https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/moneta-banche/2016-moneta/suppl_22_16.pdf.
[ii] Barbagallo,
C., 2015. Indagine conoscitiva sul sistema bancario italiano, Banca d’Italia, 9
dicembre 2015,
https://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/interventi-vari/int-var-2015/Barbagallo-09122015.pdf.
[iii] Rocholl, J., Stahmer, A., 2016. Where did the Greek bailout money
go? ESMT White Paper, No. WP-16-02-
[iv] Rose, A. 2007. Checking out: exits from currency unions. Journal
of Financial Transformation 19: 121-128 ; Nitsch, V. 2004. Have a Break,
Have a … National Currency: When Do Monetary Unions Fall Apart? CESifo Working
Paper Series 1113 ; Spencer, M G, Garber, P M. 1992. The Dissolution of the
Austro-Hungarian Empire; Lessons for Currency Reform. IMF Working Papers 92/66.
[v] Bootle, R. 2012. Leaving the euro: a practical guide. http://www.policyexchange.org.uk/component/zoo/item/
wolfson-economics-prize ; Nordvig, J,
Firoozye, N. 2012. Rethinking the European monetary union. 5 giugno; Sapir, J.
2011. S’il faut sortir de l’Euro…. Document de travail, Cemi-Ehess, 6 aprile.
[vii] Wroughton, L., Schneider, H., Kyriakidou, D., 2015. How the IMF’s
Greek misadventure is changing the Fund. Ekathimerini, 28 agosto 2015.
http://www.ekathimerini.com/200988/article/ekathimerini/comment/how-the-imfs-greek-misadventure-is-changing-the-fund
[viii] Ishac Diwan (2001) “Debt as Sweat: Labor, financial crises, and
the globalization of capital”, mimeo, World Bank ; Brada, J.C., Bah,E.,
2014. “Growing Income Inequality as a Challenge to 21st Century Capitalism,” a/
Working Papers Series 1402.
[ix] Davide Furceri et Prakash Loungani (2015) « Capital Account
Liberalization and Inequality », IMF Working Papers 15/243, International
Monetary Fund.
[xi] Bisogna
notare che in Europa le istituzioni dello stato sociale erano ben affermate e
resistevano alla pressione sui salari. Per spezzare questa resistenza bisognava
usare lo strumento del «vincolo esterno», di cui si è parlato nel capitolo
precedente.
[xii] Perugini,
C., Hölscher, J., Collie, S. 2015. Inequality, credit
and financial crises. Cambridge Journal of Economics, doi: 10.1093/cje/beu075.
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