di
Iain
Chambers, 2002
Continent,
city, country, society:
the
choice is never wide and never free.
And
here, or there… No. Should we have stayed at home,
wherever
that may be?
Elizabeth
Bishop, Questions
of Travel (1991) (1)
Il
mondo contaminato
In
questi mesi, in questi anni, si è incominciato a parlare, spesso con
toni sempre più allarmati, della questione dell’immigrazione
“illegale”. L’arrivo dei clandestini è un fatto che viene
spesso pubblicamente denunciato, mentre privatamente viene assorbito
per incontrare le esigenze crescenti della forza lavoro. Sulla scia
del cambiamento radicale della morfologia della cultura urbana
nell’occidente, si incomincia anche a parlare, di solito in toni
meno aspri, dello sviluppo di una società multietnica, delle culture
ibride e delle realtà meticciate.
Il
secondo fenomeno però, anche quando non viene visto attraverso gli
occhi della xenofobia, è di solito trattato come fenomeno recente e,
in ogni modo, di poco conto nella realtà storica e complessa della
nazione. Si sa che, al contrario degli Stati Uniti, della Gran
Bretagna e della Francia, l’Italia non ha partecipato direttamente
al saccheggio del mondo, pur giustificando a suo tempo la schiavitù
razzistica, il colonialismo rapace e l’autoritarismo imperiale.
Questi spettri della storia, che ogni tanto ritornano a disturbare
gli scenari urbani di Los Angeles, Londra o Parigi, non fanno parte
della storia italiana.
Ma
siamo sicuri? L’Italia è anch’essa parte della modernità
occidentale; il suo caffè, i suoi pomodori, come la ricchezza della
sua architettura barocca, sono tra i frutti del suo inquadramento nel
mondo coloniale. Ci sono stati inoltre degli eventi imperiali
nell’Africa orientale, perseguiti sia dallo stato liberale sia
dallo stato fascista. Le palme dell’Italia meridionale non sono
“native”, simboleggiavano i percorsi d’oltremare, un sogno
imperiale andato poi in frantumi. Notava Hannah Arendt che l’interno
moderno e metropolitano è stato costituito dallo sfruttamento
imperiale all’esterno (Arendt 1986). Ogni volta che si beve un
caffè (o un tè) c’è l’affermazione, sebbene inconsapevole, dei
processi di globalizzazione che sono in atto ormai da cinque secoli.
L’emigrato di ieri, che partiva da Genova per approdare a Buenos
Aires, e l’immigrato di oggi, che lascia Dacca per trovarsi
abbandonato su una spiaggia pugliese, sono separati nel tempo ma
unificati nella stessa storia.
In
tutto questo c’è stata una grande rimozione.
Nell’immaginario collettivo sembra trattarsi di piccoli incidenti
che non possono incidere sul senso profondo della cultura e dei
costumi della vita nazionale. Si dimentica facilmente che la nostra
luce elettrica, la nostra ricchezza, la nostra potenza sono anche il
buio, la povertà e la debolezza di un altro. La modernità rivelata
in una lingua, in una cultura ed in una letteratura, non può essere
considerata autoctona, non può essere separata dall’ambiente
mondiale in cui la modernità euroamericana ha acquistato le sue
forme differenti. In questo senso, noi tutti, sia i cittadini del
nord del mondo sia i cittadini del sud del mondo, viviamo in una
condizione post-coloniale
in
cui anche una cultura ristretta ad un cerchio d’élite
non
può più pretendere di essere incontaminata dal mondo in cui si
trova ad agire. Come ha notato Sandra Ponzanesi, questo ‘inconscio
coloniale’ fornisce un elemento cruciale nella ri-memorazione e
ri-narrazione delle storie che la cultura nazionale ha spesso rimosso
(Ponzanesi 2001).
Ma
che senso ha portare questo argomento in vicinanza del discorso
letterario-culturale italiano? Semplicemente quello di suggerire che
una formazione letterario-culturale che ignora la complessità della
modernità ha scelto un percorso destinato ad essere sempre più
provinciale. Ovviamente ogni cultura nazionale cerca di imporre una
visione omogenea del suo passato, e le sue istituzioni formative (la
scuola, l’università, ma anche la stampa e la televisione) sono
chiamate a ‘disciplinare’ la lingua e la letteratura nazionale
per arrivare a questo risultato. In questa maniera si realizza
solamente la riproduzione ufficiale del senso comune, uccidendo
contemporanemente le possibilità critiche della stessa cultura e
della sua letteratura. Qui sarebbe il caso di ricordare la frase
tagliente di Walter Benjamin: “Non c’è mai documento di cultura
che non sia, nello stesso tempo, documento di barbarie.”
(Benjamin1955)
Spesso
si ha l’impressione che il pericolo di questo tipo di chiusura non
sia nemmeno avvertito, e che anche se lo fosse lo si sosterrebbe in
nome dell’autonomia della cultura. L’idea opposta, fortemente
incoraggiata dalla letteratura stessa, che si può rivisitare il
passato per rileggerlo, ma anche per ri-considerarlo e
ri-configurarlo alla luce critica del presente è spesso considerata
illegittima, dilettantesca, e soprattutto poco ‘scientifica’. Non
si tratta di un revisionismo intento ad abbassare il livello critico,
ma si tratta di ospitare la sfida che emerge da una complessità
rimossa per
proporre un senso polifonico delle culture e delle letterature che
portano l’aggettivo di ‘italiano’. Forse è arrivato il momento
di rendere la storia, la cultura e la letteratura nazionale un po’
meno narcisistiche, e di ripensare questa formazione, con i suoi
canoni letterari ed estetici, nella costellazione mondiale della
modernità.
Si
tratta di viaggiare
nella
lingua e di essere trasportati
dalla
stessa lingua altrove. Sarà la lingua stessa che si fa suolo. E
allora, forse, lo studio della lingua e della letteratura italiana,
come ha suggerito recentemente il poeta caraibico Derek Walcott,
potrebbe aprirsi verso quella mondializzazione inaugurata nella
poetica di Dante quando egli abbandonò il latino e la lingua del
cielo per la lingua secolare della terra. Oggi, quasi otto secoli più
tardi, si fa parte di un mondo in cui le divisioni disciplinari, le
barriere linguistiche e nazionali vanno un po’ abbandonate, per
lasciarsi interpellare dalle storie rimosse che sopravvivono nelle
correnti della modernità stessa. Ogni tradizione
diventa il luogo di traduzione,
ogni canone una ricca rovina esposta ai venti che arrivano
dall’altrove. Forse in questa maniera si potrebbe incominciare a
registrare un senso più ampio, più aperto e perciò più articolato
della “narrazione” nazionale, permettendo il riconoscimento di
quel transito storico che abita la lingua e la storia di ognuno di
noi.
Un
mare di storie
Come
andrebbe riconsiderata la storia del Mediterraneo alla luce di queste
problematiche? E non stiamo parlando della mera aggiunta di un’unità
nazionale all’altra, né di una teleologia semplicistica che
comincia con la civiltà greca, egizia, fenicia… per poi riuscire a
contenere più di tre millenni di differenza unificati da un mare
comune. Come luogo specifico, il Mediterraneo evoca il continuo
intrecciarsi di radici e rotte diverse; nella sua “lunga durata”
(Braudel) si tratta di luoghi di sedimentazione ma anche di
dispersione. Come si fa, allora, a navigare, storicamente e
culturalmente, in questo spazio, armati ormai di un senso di
modernità che si è maturato nelle condizioni contemporanee di
ibridità interculturale, e forti di una crescente insistenza etica
che passa radicalmente al vaglio le idee di “casa”, “ospitalità”,
e “proprietà” della cultura, della storia e del linguaggio?
Qui
i contorni relativamente fissi del mare, della costa, delle pianure e
delle catene montuose ospitano formazioni storiche spesso
imprevedibili, e fenomeni culturali fortemente variabili. In questa
unità instabile, magistralmente espressa nel 1949 da Fernand Braudel
in La
Méditerranée et le Monde Méditerranéen à l’époque de Phillipe
II (Braudel
1966) esiste una precarietà destinata a disturbare il compromesso
strumentale del pragmatismo politico, come pure la più sottile
conclusione critica.
Persino
nelle generalizzazioni geo-storiche più approssimative, la
registrazione dei confini del Mediterraneo espone immediatamente i
criteri d’analisi, dal momento che i suoi confini si srotolano a
nord verso il Baltico, a est verso il Levante e oltre, a ovest verso
il mondo atlantico, e a sud, seppure su questo aspetto spesso si
sorvoli, verso il Nord Africa e la parte sub-sahariana del
continente. Questo significa automaticamente registrare le storie
slave, tedesche, arabe e africane come parti anch’esse integranti
del Mediterraneo, delle sue genti, delle sue storie e culture. C’è
l’immagine scolastica del Mediterraneo come culla originaria della
cultura europea: un poeta greco che pizzica la sua lira su una sponda
del mare Egeo, accordando i primi versi dell’Iliade.
Ma dietro questa bella immagine si cela una costellazione di storie
sicuramente più confusa, ma anche più ricca, in cui elementi
etnicamente ambigui e culturalmente complessi pulsano, incuranti
della pulizia ideologica portata dalla moderna storiografia europea,
dall’estetica, e dal sapere ellenico, e della loro condivisa
fiducia nel destino apparentemente unico di un’Europa
fondamentalmente omogenea.
Nell’agora
ateniese,
grano e schiavi dalle colonie ai bordi del mondo nomade della regione
del Mar Nero si mescolavano con l’Egitto urbano e con la Persia
cosmopolita. Una breve occhiata alle pagine del romanzo di Amitav
Ghosh Lo
schiavo del manoscritto (Ghosh
1994) - basato su un’opera fondamentale, in cinque volumi, di
Shlomo Dov Goitein: A
Mediterranean Society (1967-88)
- rivela un mondo di comunità ebree nell’universo arabo del
dodicesimo secolo, che si estende verso l’esterno a partire dal
Cairo, in direzione ovest fino allo Stretto di Gibilterra, e ad est
fino all’India meridionale. Attraverso il commercio, i viaggi e le
transazioni culturali, si fa strada un senso di appartenenza che
nasce da una capillare gamma di legami commerciali, familiari, e
culturali. Proprio da lì, per quei mari, e poi in seguito alla
successiva trasmissione araba ad un mondo cristiano sospettoso,
ritorna la figura cruciale della scienza moderna, della tecnologia e
della comunicazione digitale: il significante del nulla: lo zero. (2)
All’incirca nello stesso periodo, l’iniziale schiudersi dell’Est
all’Europa medievale, che vide i mercanti italiani e i messi papali
raggiungere la Cina, fu permesso dalla conquista e dal controllo dei
Mongoli sulle steppe asiatiche. Storie, culture e genti provenivano
dal Mediterraneo, ma vi provenivano spesso da molto lontano,
cambiando per sempre la fisionomia culturale e gli orizzonti storici
di quel mare.
Naturalmente,
rotte di commercio o di transito, e forme di identificazione
pre-nazionale e perciò non regolarizzate, sono poi state
riassorbite, se non sepolte nell’oblio, dalle rigide demarcazioni
imposte dalla guerra, dai nazionalismi, e dall’imposizione di
frontiere. Da un punto di vista storico, il Mediterraneo come regione
non è mai stato unificato da quando è caduto l’Impero Romano; a
conti fatti, è stato molto spesso in guerra con se stesso. Per via
di tali divisioni, molti pezzi della sua storia sono andati perduti.
C’è, per esempio, un mondo che è quasi del tutto assente dalla
narrazione occidentale: quello del Mediterraneo musulmano, con il
tragitto storico e culturale che l’Islam ha fornito dall’Atlantico
all’Asia centrale, e poi, volgendosi a sud, verso l’Africa nera.
Perfino negli ultimi tempi, gran parte dei Balcani si è data un gran
da fare per scrollarsi di dosso il suo passato turco e musulmano.
Il
Mediterraneo, luogo di storie così intricate e indigeste, diviso
tradizionalmente da differenze religiose, spesso infrequentabile fino
al 1800 per via dei pirati, eppure anche unificato dalle rotte dei
pellegrinaggi, è un qualcosa che continua a nascondersi nei recessi
di un’eventuale comprensione storica. Eppure, nello stesso tempo,
eccede le categorie che abbiamo appreso ad usare per individuare le
sue caratteristiche. I sintomi di quest’altra storia,
successivamente celati nell’uniformità del “classicismo” e del
nazionalismo europeo, continuano a emergere, però, nella realtà
incredibilmente composita della dieta mediterranea: le arance e i
limoni introdotti dagli Arabi dall’Estremo Oriente, e così il
riso; la melanzana dall’India; i fagioli, le patate e le pesche
dalla Cina via la Persia, come i cipressi; e poi i pomodori, il
peperoncino e i fichi d’India dalle Americhe (Lucien Febvre in
Braudel 1985, p.8)
Questi
segni e sapori ci invitano a un ripensamento. L’immagine
decisamente chiusa e definitiva del mondo mediterraneo si riapre
dinanzi a una serie di interrogativi che si rifiutano di scomparire.
Il confronto militare tra Spagna e Marocco nel luglio del 2002, per
un isolotto disabitato nel Mediterraneo, ci riscopre inaspettatamente
testimoni dell’insospettato potere della storia, poiché ci riporta
a un Mediterraneo dominato dal potere marittimo islamico, con
guarnigioni spagnole precariamente asserragliate sulla costa
settentrionale dell’Africa, che osservano nervosamente il passaggio
stagionale dei nomadi berberi, mentre cercano invano di contrastare
la pirateria musulmana. Furono proprio questi stessi pirati che
saccheggiarono Sorrento nel 1558, e che, quando le autorità spagnole
di Napoli si rifiutarono di pagare il riscatto, vendettero allora le
donne e i bambini come schiavi nei mercati di Tunisi e di Istanbul.
Ma c’erano anche stati i mercati di schiavi nella Roma medievale,
cristiana, come pure nel ducato bizantino di Napoli, che impiegava
nel frattempo i mercenari arabi provenienti dalla Sicilia, per
combattere contro la città di Benevento. La schiavitù mediterranea
lungo i suoi perimetri meridionali e
settentrionali
è un capitolo di storia ancora da scrivere.
E
allora, mondi apparentemente così lontani tra loro rivelano una
sconvolgente prossimità, sospesi a condividere delle realtà
storiche, dinanzi a un orizzonte di mare in comune. Il Mediterraneo
come mare di culture, di poteri e storie migranti continua ad essere
proprio questo. Il suo aspetto fluido e “crespo” (Horden e
Purcell, 2000) testimonia una formazione composita, sempre in via di
farsi, mai completa, destinata a ulteriori configurazioni. Gli
immigrati di oggi, per quanto così temuti, disprezzati e
vittimizzati dal razzismo, sono il ricordo storico del fatto che il
Mediterraneo, ritenuto l’origine dell’Europa e dell’“Occidente”,
è sempre stato parte di un altrove; proprio come le sue storie, le
sue culture e le sue genti (compresi 27 milioni di italiani) hanno
incessantemente abbandonato i suoi lidi per altri luoghi. Se Ulisse è
la mitica figura del viaggiatore e dello straniero con cui quella
storia ha inizio, è ancora con la figura del viaggiatore e dello
straniero che questa storia continuerà.
Una
rimozione storica
Il
mondo, commenta Edward Said, è pieno di “gente senza documenti”,
sia in senso burocratico che in senso storico. Si tratta, continua
Said, della massa non-cosmopolita che esiste al di là dell’arte,
della soggettività, e della rappresentanza politica e culturale
(Said 1984). E’ il rovescio, il lato oscuro, della ben nota
insistenza di Benedict Anderson sullo statuto anonimo della
nazionalità (Anderson 1983). Queste persone sono “esiliate” in
molti modi; non solo, com’è ovvio, per una dislocazione fisica e
materiale, ma anche economicamente, politicamente e culturalmente,
per l’esclusione dal programma che detta lo sviluppo e il
“progresso” globale. Eppure, se il mondo dell’opulenza ha
bisogno del resto del pianeta per le risorse economiche e materiali,
per non parlare della presenza persistente di un’alterità abietta
che crudelmente rispecchia e misura la sua identità privilegiata,
d’altra parte esso, inconsapevolmente, produce anche un
contro-spazio violento da cui tale identità viene rivalutata
criticamente.
Ovviamente,
nulla si ritrova o si vive in modo davvero solo bianco o nero. Le
configurazioni e le locazioni che si ritrovano al mondo sono, tutto
sommato, più complesse e ibride nella loro formazione e
articolazione. Nessuno occupa semplicemente un’unica categoria,
destinato ad attenersi ad essa per sempre. Però, certamente ci
ritroviamo in un tempo, caratterizzato al tempo stesso dai processi
di globalizzazione e da crisi, in cui si rende necessario ritornare
alle strutture tenaci in cui avvengono i mutamenti politici e le
trasformazioni culturali. E’ importante riconoscere, nelle
condizioni sempre più creolizzate della vita metropolitana, non solo
l’arricchimento del Primo Mondo ma anche le ormai richieste cariche
di altri mondi; richieste cariche di giustizia sociale, economica e
politica che continuano a esistere ben oltre la tenuta di superficie
di una benefica addomesticazione.
Possiamo
approfondire questo argomento partendo da una sequenza del film di
Werner Herzog, Cobra
Verde (1988),
basato su The
Viceroy of Ouidah di
Bruce Chatwin (Chatwin 1982). All’inzio del film, che si svolge
alla metà dell’Ottocento, c’è una scena in cui vediamo degli
schiavi neri che stanno tagliando e raccogliendo le canne da zucchero
in una piantagione in Brasile. In primo piano vediamo il padrone
biancos che spiega al protagonista e futuro mercante di schiavi, Dom
Francisco Manoel Da Silva, interpretato da Klaus Kinski, l’economia
della merce in zucchero dominata dal “dente dolce” della Gran
Bretagna. La raccolta dello zucchero è per una Gran Bretagna che ha
abolito la schiavitù, che sequestra le navi negriere in mare, e
tuttavia continua a godere del beneficio domestico del lavoro degli
schiavi. In questo paradosso crudele consiste “la storia amara
dello zucchero” (Derek Walcott).
Ovviamente,
questa non è la storia che la modernità occidentale è abituata a
raccontare a se stessa. La schiavitù, il razzismo e l’insistenza
sulla purezza etnica sono considerati aberrazioni, incidenti storici;
terribili e disgustosi, ma comunque fattori esterni che non
scalfiscono il cuore della modernità e la realizzazione del
progresso, della politica democratica e della cultura illuministica.
Prestare attenzione a tali eventi, a tale storia mostruosa, invece,
serve a rendere esplicito qualcosa che è stato centrale per la
formazione della modernità occidentale dai
suoi inizi cinque
secoli fa. Esporre la repressione che abita il cuore di tenebra della
modernità, significa toccare il rimosso che permette un’immagine
coerente e omogenea da sostenere in pubblico e in privato. La
modernità si è costruita su questa rimozione, sulla negazione dei
corpi, delle storie e delle culture su cui l’economia politica
dell’Atlantico, e con ciò dell’Europa moderna, si è fondata.
Emigrare,
immigrare, trovarsi in esilio e spaesati, non è una questione
recente, poiché investe tutto l’arco della modernità, dal momento
della scoperta del “Mondo Nuovo” all’arrivo dei motoscafi sulle
coste nordiche del Mediterraneo di oggi. Reintrodurre questa storia
nella configurazione del sapere e del potere della modernità
significa suggerire che métissage, creolité, ibridità non sono
discorsi dell’ultima istanza… essi sono disseminati nella storia
moderna sin dall’inizio.
La
mostruosità della ragione
A
questo punto ci si chiederà di chi è questo progresso, questa
libertà e illuminismo, di chi è questa modernità. L’universalismo
che parla in suo nome, mentre sorvola sulla mancanza di libertà e
l’oblio degli altri, propone una prospettiva universale che resta
vera solamente per alcuni, non per tutti. Come mai la maniera
occidentale di concepire il mondo pretende di essere universale,
mentre altre storie vengono messe al margine, rese subalterne,
calpestate e spesso espulse dal racconto? L’orrore dell’altro,
dell’alterità, scrupolosamente localizzato nelle presunte
differenze razziali, non rappresenta solamente la paura di una
minaccia esterna, ma anche la paura dinanzi alla potenziale
trasgressione e distruzione di quell’ordine che, con i suoi saperi
sociali, politici ed estetici, con i suoi poteri, pensa di riuscire a
gestire e spiegare l’altro, e con ciò il resto del mondo.
La
passione per lo sradicamento dell’alterità dalla terra è anche
volontà di rendere centrale la propria casa, il senso della dimora
che autorizza tale desiderio e lo premia. Nel suo nazionalismo,
localismo e razzismo, tale desiderio costituisce una nevrosi pubblica
e privata. Fare a meno della concezione rigida del luogo e
dell’appartenenza che sorregge la mia voce e garantisce il mio
potere non significa solo fare un semplice trasloco per entrare nelle
coordinate di un contesto ormai planetario. Tale spostamento mi
servirebbe meramente come scusa per evitare qualsiasi responsabilità
reale nel nome di un globalismo astratto e generico. La mia
tradizione potrebbe continuare indisturbata in una nuova
configurazione dai contorni non troppo netti. Invece, qui si tratta
di qualcosa di molto più preciso e urgente. Nell’orrore dello
spaesamento pulsa l'angoscia per la dispersione dell’uomo
occidentale: la paura del razionalismo davanti a quello che eccede e
sfugge al ragionamento che conferma la centralità del soggetto
occidentale nella spiegazione del mondo.
In
tutto questo consiste la sfida storica annunciata dalla violenza che
nell’arco di cinque secoli ha stabilito la possibilità di
articolare il nostro senso del mondo che orbita attorno alla
centralità storica e epistemologica dell’Europa. Tale centralità
si regge su un rapporto ineguale, ingiusto e raramente riconosciuto.
La ragione che si vede specchiata in questa formazione dovrebbe
sapere di essere inscritta in questa violenza; una violenza
strutturalmente rimossa e addirittura negata per permettere alla
ragione di funzionare indisturbata. Ma la mostruosità del
ragionamento occidentale, segnata da pulizie etniche, ideologie
razziste e genocidi, cioè da una violenza che spesso ha abbandonato
le sponde della ragione, non è un incidente storico o una rara
atrocità accaduta ai margini del mondo. Questa mostruosità,
distillata nel desiderio di spiegare e gestire tutto, ritorna sempre,
e si è rivelata centrale alla nostra modernità. Da questa
prospettiva ben si comprende la riflessione di Walter Benjamin: i
morti continuano a parlare. La nostra casa e i nostri linguaggi sono
costruiti in loro presenza; e il senso che ognuno porta con sé si
regge anche e soprattutto sulla violenza distillata nell’oblio di
quest’altra storia.
Il
senso del silenzio
Questo
ci introduce a qualcosa di più che una risistemazione sul terreno
del pensiero. Nell’ascoltare il supplemento del silenzio – quello
che una volta era considerato non-senso, inintellegibile e
indecifrabile - posso iniziare a capire che il mio linguaggio, la mia
identità, la mia storia, la mia voce, hanno sempre richiesto
l’espulsione violenta nell’oblio di qualsiasi oggetto di
disturbo. Ora, poiché non posso parlare per questo silenzio, per
questo altro, posso però lasciare un posto per esso: come lo spazio
tra il respiro delle mie parole: essenziale ma solitamente
dimenticato. Qui il volto immediato dell’altro, reso attuale da un
mondo che si restringe ogni giorno, interrompe l’anonimo,
l’astratto. Come insegna Emmanuel Lévinas, è l’evasione del
volto dell’altro che permette l’omicidio anonimo e il massacro
astratto (Lévinas 1961). Il volto invita a una risposta che non può
essere una risposta ipotetica, e ci spinge alla cura per qualcosa che
si estende oltre il teorico: “Per questo c’è un abisso tra il
‘filosofare’ sul naufragio e un pensiero che davvero naufraga”
(Heidegger 1981).
Quando
il mio tempo è piegato dal tempo altrui e il mio pensiero è
attraversato dalla presenza di un altro, entra in gioco una dinamica
che non posso più possedere. Il varco verso l’alterità, verso
quello che mi eccede, è un’ apertura in cui sono costretto a
pensare oltre il mio senso di possedere
una
storia, una cultura e identità che rende tutto trasparente ai miei
interessi. Mi trovo in un’apertura in cui la mia storia, il mio
essere, sono resi vulnerabili, aperti alla sfida di essere resi altro
a loro volta. La mia storia è interrotta, il suo possesso del mondo
è sradicato; non più unica deve rispondere a un incontro che non
può controllare, che non può più rappresentare né più escludere.
Qui
nella dinamica del linguaggio affiora l’inquietudine del silenzio
da cui arrivano altre voci, altre storie, gli altri. Qui avviene il
passaggio dall'accettazione liberale delle differenze, in cui la
visione dominante non viene mai sfidata, all’interruzione radicale
dell’alterità. Ritornare al linguaggio con questo supplemento, con
questo modo per piegare il tempo, dà inizio alla cerimonia della
memoria che semina nel linguaggio egemonico altri frutti, altre
storie, altre verità da raccogliere.
Quando
il “mio”, il “nostro”, linguaggio - il linguaggio della
modernità, dell’occidente con il suo “progresso” e la sua
tecnica – è riformulato, ricostruito, in questa maniera, il
linguaggio lascia posto all’inquietudine dell’inaspettato. Un
mondo, una geografia tutta centrata su se stessa, incominciano ad
andare alla deriva.
Le
scorie della storia
Pensiamo
un attimo alla musica, sia come linguaggio sia come mezzo per sondare
la modernità. L’opacità semantica dei suoni si estende al di là
delle frontiere del quotidiano e delle istituzioni che cercano di
regolare il senso delle nostre vite. Le sottoculture giovanili e le
loro musiche sono state fra i segni più spettacolari
dell’esplorazione di tali aperture negli ultimi cinquanta anni, ma
il loro arresto entro i confini arbitrari dello stile (di solito
fortemente maschile) significa che anch’esse sono destinate ad
essere superate dal supplemento dei suoni che tendono a circolare nel
mondo senza un indirizzo fisso.
Nell’avvicinarsi
all’essenza tecnica, estetica e culturale della musica odierna,
un’idea chiave, come Walter Benjamin aveva suggerito negli appunti
che costituiscono il volume Parigi.
Capitale del XIX secolo (Benjamin
1982), sarebbe quella di prendere le scorie della città, i frammenti
delle sue storie e dei suoi linguaggi, come materiale - i segni e
suoni che si trovano quasi per strada - e, come un disc-jockey,
mescolarle insieme per creare un ritmo, una cadenza, che ci porti
verso un nuovo orizzonte di senso. Così, posso pensare alla maniera
della musica “scratch” rubata dai DJ neri di New York dove suoni
già incisi vengono suonati simultaneamente su un paio di piatti per
arrivare ad un ritmo, ad un’immagine sonora, mai sentiti prima. Lo
“scratch”, questa prassi di bricolage, potrebbe essere una
metafora per la produzione culturale contemporanea che ci indica le
vie in cui possiamo
usare i linguaggi della città stessa per esplorare la città.
Questo
ci permette di prendere in considerazione l’idea dei linguaggi
della città - la musica, ma anche il cinema, la tv e la moda - come
forme del sapere contemporaneo. Si tratta di archivi elettronici e
memorie audiovisive che disturbano, minacciano e mettono in questione
le forme precedenti di autorità ed egemonia - sia intellettuali che
politiche ed estetiche - e che permettono, nello spazio fra i
frammenti, che altre voci, altri sensi, altri accenti, altri mondi,
emergano e vengano ascoltati. E’ qui che si formula un nuovo senso
estetico, dove i valori culturali non sono più visti come fatti
eterni e metafisici, ma invece emergono, vivono e muoiono nel tempo,
nel movimento perpetuo del mondo.
Poiché,
naturalmente, questi linguaggi non possiedono alcuna garanzia etica o
estetica. Se ora esiste una grammatica costante messa a disposizione
dalla tecnologia mobile del Walkman, dei computer portatili, delle
carte di credito, dei lettori CD, dei telefoni cellulari, di Internet
e file l’Mp3 (nell’opulento Primo Mondo, il che significa che
gran parte della popolazione mondiale non ha mai usato un telefono),
il modo in cui questa grammatica opera può variare in intenzioni e
in effetti. Se il primo Walkman combinava musica e tecnologia in
un’inquietante riconfigurazione dello spazio pubblico -
un’individualità distinta che emerge dal ronzio degli auricolari e
che porta all’interruzione di distinzioni precedenti tra la privacy
interiore e la sfera pubblica esteriore - l’accesso, tutto sommato
più ristretto, al telefono cellulare (un costoso oggetto che
richiede una continua revisione economica) potrebbe semplicemente
rivelarsi come banale estensione di un individualismo invadente, in
cui la sfida a precedenti forme di linguaggio e di comunicazione
viene completamente riassorbita dalla banalità del riprodurre
pubblicamente il familiare. Qui la rischiosa ambiguità e la
potenziale apertura dei linguaggi si riduce spesso alla “neutralità”
trasparente dell’iper-informazione computerizzata, e al desiderio
narcisistico di essere sempre “connessi” (a cosa, dove, come,
perché?).
A
questo punto la metropoli si presenta come luogo aperto dell’identità
sociale, della memoria culturale e delle possibilità storiche.
Questo spazio è quello che oggi può essere invaso dai linguaggi che
sotto l’impatto della globalizzazione dei rapporti culturali non
sono proprietà di nessuno: il lessico della musica rock, la sintassi
televisiva, l’ubiquità della lingua inglese. E’ qui che il
pericolo e la chiusura dell’omogeneo, del sempre uguale, viene
accompagnato dalla salvezza e dall’apertura delle differenze.
In
questa nuova configurazione, aperta alle storie, alle memorie, alle
possibilità che arrivano dall’altrove e emergono fra di noi,
l’identità non può essere vissuta come qualcosa di già dato e
realizzato ma diventa invece un’apertura, un continua elaborazione,
verso l’avvenire. Qui si disputa un senso della modernità che,
come notava Nietzsche, raggiunge l’apice del nichilismo nel ridurre
la molteplicità della vita alla singolarità di una metafisica
universale rappresentata dalla presunta sovranità dell’identità
individuale. Invece la razionalità produttiva della modernità è
continuamente interrotta dai propri linguaggi che la portano altrove.
In questa maniera lo stato, i linguaggi dominanti, e la logica del
capitale, sono spesso bloccati e deviati quando identità contigue
viaggiano altrove, per esempio passando lungo i fili telefonici e
attraverso il modem, mentre l’ultimo miscuglio musicale di ‘ragga’
viene trasmesso dalla Giamaica a Londra, per poi continuare a New
York per un’ulteriore elaborazione, prima di tornare a Kingston per
arrivare sul dischetto e la pista da ballo nel giro di pochi giorni.
Da DJ a DJ, tramite la tecnologia digitale, un linguaggio nero e
metropolitano che porta il nome di “Giamaica” è trasmesso oltre
le frontiere, rifiutando di fermarsi alle dogane culturali o di
mantenersi entro i limiti di un senso locale mentre viaggia nello
spazio ontologico del suono.
Sono
tali linguaggi che ci permettono di esserci, che permettono
all’essere di esplorare le possibilità nuove. Questi linguaggi
parlano, e parlano di un luogo culturale particolare dove il passato
e la memoria, le iscrizioni e le prescrizioni, sono ri-scritte,
ri-citate e ri-situate. Perché è lì che quelle che noi chiamiamo
le nostre identità storiche, culturali e personali non vengono solo
formate, ma addirittura ri-elaborate, per permetterci di entrare a
far parte della prosa e della promessa del mondo.
Questo
scenario chiaramente ci propone una rilettura del concetto di
autenticità, e il suo decentramento, e con ciò la crisi del
presunto rapporto trasparente e pragmatico fra linguaggio e identità,
e le prospettive politiche e culturali costruite su di esso. La
proiezione romantica che vede nell’autentico una tradizione
continua, una comunità stabile e un’identità fissa, è qui
interrotta da un diverso senso di autenticità. Questo senso emerge
dalle tracce di memorie, suoni e storie, cioè dai linguaggi che
forniscono le costellazioni mobili di un’identità in grado di
dialogare con la condizione vulnerabile del contemporaneo, per
cercare lì la sua redenzione, la sua dimora.
Oltre
il multiculturalismo
In
questa zona incerta, ambigua, aperta, la sfida a essere decentrato e
ad affrontare i limiti del proprio mondo significa anche affrontare i
limiti del multiculturalismo che questo mondo finora ha proposto. Di
nuovo, non si tratta semplicemente di aggiustare il quadro politico,
di allargare gli spazi della sfera pubblica, per ospitare altre
culture ed altre storie. Si tratta, invece, di affrontare un compito
molto più arduo in cui noi stessi diventiamo il quesito principale.
Abituati a pensare alle questioni di migrazione, immigrazione,
razzismo e diversità come problemi altrui, siamo, invece, ora
chiamati a pensarli come prodotti della nostra storia, della nostra
cultura, del nostro linguaggio, del nostro potere, dei nostri
desideri e nevrosi. A questo punto, l'antropologia occidentale
diventa l’antropologia dell’occidente, ovvero l’antropologia
dell’occidentalizzazione del mondo. Un’antropologia ormai senza
oggetti, composta solamente dai soggetti storici diversi.
Se
il multiculturalismo rappresenta la risposta liberale che riconosce
le culture e le identità altrui per mantenersene al centro, e
lasciando queste altre culture in posizione di subalternità, così
evitando qualsiasi interrogazione del proprio progetto politico, qui,
invece, stiamo contemplando qualcosa che va oltre il
multiculturalismo e la sua logica di “assimilazione” per
affrontare la questione persistente di come vivere con, e nelle,
differenze. Si tratta, come osserva il critico postcoloniale Homi
Bhabha, di entrare in quel “terzo spazio” dove ogni cultura di
“origine” viene interrogata e configurata secondo i processi di
ibridizzazione (Bhabha 1993). Qui si apre un divario tra il tempo del
governare e il tempo etico della politica, il divario tra la gestione
istituzionale e le forme e le forze che lo precedono ed eccedono. Qui
l’identità di ciascuno di noi diventa una rete di diversità,
un’apertura di differenze etniche e linguistiche, di differenze
storico-culturali, religiose e sessuali, che nessuna logica è in
grado di racchiudere in sé. Se il concetto dell’altro, su cui il
nostro senso di identità storica, culturale e individuale si regge,
è andato in frantumi, anche noi siamo coinvolti in una dispersione
che ci porta oltre quella casa tradizionale composta di linguaggio e
identità nazionale, di località fissa. Non si tratta di evocare
l’altro come minaccia o speranza, ma di interrogare noi stessi.
Perché qui si profila la sfida a concepire il nostro essere senza la
garanzia di essere radicati in sangue e suolo, senza l’idea che il
“nostro” linguaggio, la “nostra” cultura, la “nostra”
storia, appartengano solamente a noi.
Sporcare
il pensiero
A
questo punto il rapporto tra noi e l’altro diventa molto meno
chiaro. Sia lo spazio sia il tempo della modernità risultano più
complessi, meno geometrici e lineari nelle loro articolazioni. In
quest’ottica si tratta di recepire la possibilità che la modernità
ed i suoi linguaggi di secolarizzazione non rappresentino un processo
unilaterale. Sebbene il mondo sia stato investito dalla potenza
economica, politica e culturale della modernità occidentale, non si
arriva automaticamente all’appropriazione completa da parte
dell’Occidente: l’occidentalizzazione del mondo non significa che
l’occidente sia diventato il mondo. Il nostro spazio, come la
nostra storia e cultura, non è solamente nostro. Al contrario, ormai
circolano e sopravvivono all’interno
dei linguaggi dell’occidente
anche altri modi di esserci nel mondo, suggerendo una serie di
percorsi trasversali in cui l’arcaico e il moderno, il sacro e il
secolare, coesistono e costituiscono nel loro insieme i linguaggi
ambigui del presente. Qui i rapporti risultano molto meno incisivi
per capire una modernità che spezza continuamente i tempi del
promesso superamento o Aufhebung
del
progresso sottoscritto dal pensiero dialettico.
In
questa luce la modernità ci prospetta un paesaggio mondiale che
precede ed eccede la nostra volontà. E anche se pensiamo di esserne
gli autori, spesso ci ritroviamo assoggettati ai suoi linguaggi.
Parlando come “moderni” del nostro rapporto con le culture
altrui, spesso dimentichiamo che tali rapporti sono sedimentati
nell’essere moderno da secoli. È stato infatti su tali rapporti
che il concetto stesso della modernità si è elaborato, e con ciò
l’alterità rimossa, soprattutto nell’epoca in cui il nostro
mondo apparentamente diventa il
mondo,
si rivela parte integrante di noi stessi. Questa forse è la grande
lezione di Pasolini, e questo è sicuramente il punto centrale della
teoria postcoloniale. Trasportare i termini dell’argomento su
questo terreno, sporcando il pensiero con l’insistenza terrestre
della formazione ibrida ed incerta di una modernità diventata mondo,
significa spezzare qualsiasi distinzione netta tra noi e gli altri,
tra il Nord e il resto del mondo, il centro e la periferia.
Lo
spostamento dell’argomento in questa direzione ci aiuta anche a
raccogliere l’azione apparentemente inconcepibile dell’11
settembre 2001. Non si tratta tanto di un evento piombatoci addosso,
quanto di uno dei tanti punti di maturazione dei percorsi subalterni
della modernità, che trova voce e, soprattutto, spazio mediatico,
nell’amplificazione drammaticamente moderna del terrorismo. Non
penso che l’appoggio popolare alla strategia vendicativa di un
miliardario saudita provenga puramente dal serbatoio della religione;
penso invece che sia il caso di dirigere la nostra attenzione verso
quei frutti della modernità che Frantz Fanon chiamava i “dannati
della terra”.
A
questo punto, però, non si tratta di evocare lo spettro di un
Terzomondismo per contrastare il compiacimento del pensiero
occidentale che rifiuta di pensare ai propri limiti. Al contrario, si
tratta di riconoscere all’interno dei nostri discorsi
l’interrogazione dell’altrove che ormai abita la casa del nostro
linguaggio. Attraverso Hollywood e la società dello spettacolo
abbiamo assistito molte volte a questi scenari, ma ora ecco il
trauma, ecco il profondo senso di spaesamento, abbiamo sempre
rifiutato di sentirli come il richiamo profondo della fragilità del
nostro modo di inquadrare il mondo. Si trattava sempre di atti di
esorcizzazione oppure di “incidenti” - genocidi, carestia,
terrore politico - accaduti altrove: Ruanda, Guatemala, Angola,
Cambogia, Eritrea, Timor Est, Palestina… Ma se il mondo ormai è il
nostro, inquadrato dalla nostra modernità, forse questi eventi sono
anche “nostri”. Attraverso la freddezza dello sguardo critico
abbiamo cercato di mantenere la distanza, non permettendo all’oggetto
di sfuggire alle nostre discipline (antropologiche, sociologiche,
storiche, politiche…) per annunciarsi come soggetti storici che
richiedano una risposta, e dunque il riconoscimento della nostra
responsabilità nell’abrogazione della loro storia. Tale
annullamento storico rappresenta una ferita perfino più grave
dell’istituzione razzistica della schiavitù moderna. Forse è qui,
quando la nostra modernità ritorna carica di altre storie, altre
identità, altri desideri, che nasce una vera difficoltà. Se in
qualche modo la modernità stessa è stata costruita sull’espulsione,
sia fisica sia simbolica, dell’altro in nome della purezza
religiosa, etnica, culturale e scientifica, allora la storia della
modernità è
anche la storia di questa rimozione,
di questa negazione, di questa impostazione di ‘distanza’. Una
distanza che ormai è impossibile mantenere.
Di
nuovo, aprirsi a questa prospettiva richiederebbe una disponibilità
a riconsiderare la configurazione della modernità dai suoi inizi
cinque secoli fa. Qui troveremmo che gli argomenti di Marx sulla
tendenza del capitale a realizzarsi in un mercato mondiale, e
l’insistenza di Heidegger sull’evento storico rappresentato
dall’avvento del “mondo quadro” stabilito per la prima volta
con la prospettiva umanistica, ci invitano a ripensare ai processi di
“globalizzazione” secondo una temporalità diversa da quella
indicata dal giornalismo istantaneo. Il ritorno della storia della
modernità nella storia della prepotenza dell’egemonia occidentale
su scala planetaria, registrata e rimossa nel pensiero da una
“epistemologia violenta” (Gayatri Chakravorty Spivak), ci spinge
a riconfigurare il senso stesso della modernità. Dopo lo Shoah
sappiamo
che la violenza incomprensibile è stata sempre realizzata e sarà
sempre realizzabile; possiamo trovarci continuamente dinanzi agli
eventi che non riusciamo a far entrare nella nostra capacità di
ragionare. Ma la registrazione dei limiti dei nostri linguaggi, del
nostro pensiero davanti all’incommensurabile, non significa che si
dovrebbe passare dallo stato della ragione alle tenebre
dell’irrazionalità. Arrivare ai propri confini potrebbe anche
servire a consegnarci a dialoghi e prospettive basate non tanto sul
potere prescrittivo delle nostre voci, quanto sull’apprendimento
dell’ascolto, dove i nostri linguaggi ritornano parlando di altre
storie, di possibilità finora impensabili; dunque di altre
modernità.
L’inquietudine
del mondo
Elaborare
un senso del luogo, di appartenenza, edificare e abitare lo spazio,
quello del Mediterraneo o quello della città di Napoli, per esempio,
implica registrare dei confini, dei limiti; come minimo tra un dentro
e un fuori, tra lo spazio coltivato della scena domestica e la
stranezza e l’inquietudine del mondo esterno. Naturalmente, dopo
Freud, ma come Jean-François Lyotard ci ha ricordato, possiamo dire,
sulla scia della tragedia greca, che questa casa è illusoria, che
l’estraneo, il rimosso, l’inconscio, riescono sempre a
infiltrarsi nello spazio domestico; la porta è porosa. Notava Georg
Simmel che con la porta il confinato e lo sconfinato si toccano l’un
l’altro, non nella forma geometrica e morta di una partizione di
separazione, ma nel senso della possibilità di uno scambio continuo.
Abitiamo nel perturbante, dove il rimosso completa l’architettura
delle nostre storie, le nostre culture, le nostre identità.
Tale
concetto di “luogo” e di “casa” abitata dagli spettri della
storia, mette in questione la storia, la cultura e l’identità, sia
dell’altro sia del residente, e con ciò dei saperi che pensano di
possedere la spiegazione di questi rapporti. I nostri saperi, le
nostre narrazioni, noi stessi, siamo chiamati a rispondere ad una
conoscenza dell’esserci nella modernità che va oltre i confini
istituzionali e disciplinari che abbiamo imparato e propagato. Al
posto della “scientificità” conclusiva di una disciplina, di un
sapere, si installa un senso aperto ed interdisciplinare; dove il
“senso” sta per indicare la direzione, la via, il dispiegamento
di un percorso critico. Fuori casa, un po’ spaesato, ogni discorso
e formazione storico-culturale viene inscritto in una cartografia
sradicata per essere ri-letto, ri-visitato nel momento in cui viene
interpellato dalle storie rimosse che sopravvivono nelle correnti
della modernità stessa. A questo punto ci troviamo in un percorso
che si apre su una geopolitica e una “globalizzazione” diverse,
con la prospettiva di riscrivere il senso stesso del
luogo, dell’identità, e delle modernità,
che ci portano altrove. Questo sarebbe lo sradicamento radicale della
modernità che altri, meno fortunati di noi, hanno già conosciuto.
Forse, come ha suggerito Adorno, tocca ora a noi imparare a stare a
casa senza sentirsi a casa, per recepire ciò che esiste oltre i
nostri confini, i nostri concetti; quei concetti che, in fin dei
conti, cercano sempre la consolazione di addomesticare il mondo per
il nostro beneficio. In questo luogo, sospesa negli interstizi del
divenire, ogni identità si trasforma da punto di arrivo in punto di
partenza, lungo il percorso mondo dove ormai tutti cercano “casa”.
Napoli,
luglio 2002
1)
Continente, città, paese, società/la scelta non è mai ampia e mai
libera./E qui, o lì… No./Saremmo dovute restare a casa, /ovunque
essa possa essere?
2)
Inventato in realtà qualche migliaio di anni prima dai Sumeri e
portato sulle rive del Gange da Alessandro, fu però il matematico
indiano Mahavira a intuire l’intera portata della cifra. Poi,
attraverso i mercanti e i matematici arabi lo zero rientrò in Europa
occidentale.
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