Dagli atti del convegno che si è svolto a Pavia il 14 e il 15 novembre 2013 presento l'interessante intervento di Riccardo Bellofiore.
In un romanzo che andava di moda
quando ero giovane, Lo zen e l’arte
della manutenzione della motocicletta di
Robert Pirsig, a un certo punto si incontra questa riflessione:
Sì o no… questo o quello… uno
o zero. L’intera conoscenza umana è costruita sulla base di questa
discriminazione elementare a due termini. Ne è una dimostrazione la
memoria dei calcolatori, che immagazzinano tutta la loro conoscenza
sotto forma di informazione binaria. Tanti uno e tanti zero,
nient’altro. Dato che non ci siamo abituati, di solito non ci
accorgiamo che esiste un terzo termine logico possibile equivalente
al sì o al no, il quale è in grado di espandere la nostra
conoscenza in una direzione non riconosciuta. Non esiste nemmeno il
termine per indicarlo, per cui dovrò usare la parola giapponese mu.
Mu significa «nessuna cosa». Come «Qualità», mu punta il dito
fuori dal processo di discriminazione dualistica, dicendo
semplicemente: «nessuna classe, non uno non zero, non sì non no».
Afferma che il contesto della domanda è tale per cui la risposta sì
o la risposta no sono errate e non dovrebbero essere date. Il suo
significato è «non fare la domanda». Mu è appropriato quando il
contesto della domanda diviene troppo angusto per la verità della
risposta.
La discussione oggi si svolge troppo
spesso nei termini di una alternativa secca sì/no. Per esempio:
sull’uscire o sul restare nell’euro; sull’opposizione
keynesismo/monetarismo come caratterizzante la situazione attuale;
sull’austerità; sulle riforme strutturali. È una logica a cui
secondo me si deve sfuggire, ma certo se lo fai ciò tende a isolarti
in un dibattito sempre più ipersemplificato. E non è un caso che mi
trovi spesso a sostenere delle tesi in cui se si conta chi è
d’accordo con me il loro numero sta in una sola mano, monca.
Non è facile, evidentemente,
sviluppare un ragionamento diverso dallo spirito del tempo della
sinistra in quindici minuti. Vorrei proporvi delle Tesi, ma questo
non è possibile in questa sede. Nella tradizione storica del
movimento operaio (dovrei dire meglio, del movimento dei lavoratori e
delle lavoratrici) le Tesi sono composte da due tre frasi, a cui però
segue una lunga argomentazione che le giustifica. Non ne ho il tempo.
Non vi proporrò dunque delle Tesi ma, almeno in questo in omaggio
all’epoca, vi proporrò dei tweet,
senza alcun commento (anche se spesso supererò i 140 caratteri, mi
ci terrò il più possibile vicino). Non è detto, ovviamente, che
tutto risulterà chiaro. Anzi, do per certo che alcune cose, spero
non troppe, risulteranno in prima battuta oscure: ma spero che
possano risultare intriganti, e invitare a una ulteriore riflessione.
1.
La recente crisi globale nasce come crisi bancaria e finanziaria che
si tramuta in crisi reale. È assurdo contrapporre le due dimensioni.
Sono strettamente integrate. L’una non si dà senza l’altra.
2. La crisi globale nasce nel 2007,
anche se è usuale leggere come data di inizio il 2008.
3.
È la crisi di una nuova configurazione del capitalismo, che viene
chiamato neoliberismo.
4.
Il neoliberismo non è monetarista, e tanto meno liberista.
5. Il neoliberismo è ciò che Hyman
Minsky chiamava money manager capitalism
e che io caratterizzo come ‘sussunzione
reale del lavoro alla finanza e al debito’ (una integrazione
subalterna delle ‘famiglie’ a queste dimensioni del capitale).
6.
Il neoliberismo si distingue per un’altra dimensione nuova tanto
quanto la precedente,
la ‘centralizzazione senza concentrazione’, a cui si lega la
precarizzazione universale
del mondo del lavoro.
7.
Il neoliberismo, nel mondo anglosassone (ma non solo), è
caratterizzato da un crescente
debito privato – debito delle famiglie, non debito delle imprese.
8.
Il debito delle famiglie si è sviluppato come portato del
capitalismo dei fondi
(altrove l’ho definito ‘capitalismo dei fondi pensione’, come
esempio significativo
dei vari fondi istituzionali: Michel Aglietta lo chiama ‘capitalismo patrimoniale’,
Luciano Gallino parla di capitalismo con i ‘soldi degli
altri’).
9.
È un capitalismo che per lungo tempo, e con particolare vigore dal
1987 al 2007
(salvo l’interruzione a inizio millennio), ha visto una corsa verso
l’alto dei
prezzi delle ‘attività’, prima sul mercato finanziario, poi
nell’immobiliare. Una
capital market inflation,
come la chiama Jan Toporowski.
10.
Il neoliberismo, nel suo centro anglosassone (in
primis gli Stati Uniti) ha avuto
come traino della domanda e motore della crescita il consumo a
debito, basato
su quella inflazione dei capital asset.
11. Il neoliberismo è stato insomma un modello riconducibile alla terna che ho definito come lavoratore traumatizzato/risparmiatore maniacale(-depressivo)/consumatore indebitato. Una terna che andrebbe prolungata nella sedated middle class di Toporowski.
12.
Tra i global player del
manifatturiero e dei servizi si era intanto instaurata una
concorrenza ‘distruttiva’ tramite strategie aggressive di
investimento. Il
risultato è stato un cronico eccesso di offerta in alcuni settori
(un punto messo
bene in rilievo da Jim Crotty).
13.
La catena della produzione del valore si riorganizzava in profondità,
assumendo un
carattere né globale né internazionale ma transnazionale (sono molto
utili per comprendere questo processo le analisi di Francesco Garibaldo).
La stratificazione nella rete di imprese si dà secondo la diversa forza
relativa delle singole unità nella filiera. Al polo alto vi sono
fornitori di
moduli con autonomia imprenditoriale e gestionale, mentre al polo basso
si lotta per sopravvivere. La condizione dei lavoratori dipende dalla collocazione
della singola impresa nella filiera.
14.
Quando il modello è crollato, chi ci ha salvato dal ripetersi del
Grande Crollo (per
impiegare il titolo del libro di John Kenneth Galbraith) come negli anni
Trenta non è stato Obama, se non per quel che riguarda la rete di
salvataggicrescente debito privatoo offerta
alla finanza: sono stati gli ‘stabilizzatori automatici’ e, tra
fine 2008
e inizio 2009, alcune politiche discrezionali di spesa in disavanzo,
e in particolare
l’unica massiccia manovra autenticamente ‘keynesiana’, il
deficit spending
della Cina.
15.
Il modello neoliberista non è stato affatto un modello senza
politica, è stato anzi
un modello eminentemente politico, di una politica anche economica molto
attiva; è quel modello che alcuni autori (Colin Crouch il più noto;
prima ancora,
chi vi parla) hanno chiamato di ‘keynesismo privatizzato’.
16.
Si dava un’alternativa sul terreno della politica economica? Se
escludiamo pensieri
radicali e marginali, come quello a cui appartengo, sì. Mi riferisco
a ciò
che ho descritto varie volte come social-liberismo. Per capirci,
Clinton negli
Stati Uniti, Jospin in Francia, Prodi e parte del PD da noi, e così
via. Blair
è a suo modo una via intermedia (neoliberismo e social-liberismo
sono idealtipi).
17. Sul terreno della teoria economica, il neoliberismo copre pensieri
altrimenti difficilmente
compatibili come nuova macroeconomia classica, monetarismo
e
scuola austriaca, il social-liberismo ha come riferimento la nuova
economia keynesiana, sino a Krugman o Stiglitz prima della loro svolta
radicalizzante degli ultimi anni (più politica che teorica).
18.
Il neoliberismo è autenticamente liberista sul mercato del lavoro
(precarizzazione) e
welfare (contro lavoro e donne), ma non è contro i monopoli o
i disavanzi di bilancio (cfr. Reagan, Bush, Berlusconi).
19.
Il social-liberismo è a favore della liberalizzazione su mercato dei
beni e dei
servizi (antitrust) e delle varie forme di patto di stabilità, ma
sostiene politiche
redistributive che, tra l’altro, vorrebbero trasformare precarietà
e flessibilità,
tutelando il lavoro.
20.
Nessuno dei due è autenticamente liberista. In effetti, il liberismo
(come la globalizzazione
e il postfordismo) semplicemente non esiste, e non è mai esistito,
né di destra né di sinistra. Né mai esisterà. Il cosiddetto
neoliberismo non
è affatto, semplicisticamente, ‘meno Stato’: è anzi imposizione dall’alto
di un modello di società dove competizione e dirigismo si
compenetrano in
profondità (una tesi che ultimamente è stata ripresa e approfondita da
Philip Mirowski).
21.
La crisi ha spazzato via il social-liberismo, e anche il neoliberismo
per come
l’abbiamo conosciuto è morto. Il paradosso è che la crisi del
neoliberismo è
gestita dagli stessi neoliberisti. Il neoliberismo è uno zombie. La
ricerca affannosa di nuove bolle non è stata in grado di far
ripartire la crescita.
22.
La crisi europea non nasce come crisi dell’euro ma è, inizialmente
e significativamente, un
‘rimbalzo’ della crisi globale. Va semmai spiegato come sino ad
allora le contraddizioni della moneta unica siano rimaste latenti.
23.
Anche in Europa siamo stati salvati, tra metà 2008 e metà 2009, da
politiche keynesiane,
e il Paese che le ha praticate con più energia e intelligenza si
chiama Germania.
24.
La crisi in Europa riparte drammaticamente dopo lo scoppio del caso
Grecia, e
l’effetto domino con Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia, che –
pur del
tutto prevedibile – precipita e diventa drammatico nel 2011.
25.
La crisi europea non è crisi del debito pubblico. L’esplosione del
debito ‘sovrano’
è l’altra faccia della crisi del debito privato, sia per
trasferimento diretto
del debito dal privato al pubblico, sia come conseguenza della caduta
del Prodotto interno lordo collegata alle politiche di contrazione della
domanda.
26.
L’austerità è (come si direbbe in inglese) self-defeating:
autodistruttiva, controproducente.
27.
Il modello neomercantilista europeo di fare profitti tramite
esportazioni nette
(un modello Luxemburg-Kalecki), che aveva reso il continente
dipendente dalla
domanda estera e sempre più dalla dinamica statunitense, è andato
in crisi tra il 2007 e il 2008. L’idea di un de-linking,
di uno ‘sganciamento’
dal traino statunitense, si è rivelato per quello che era
prevedibile che
fosse, una pia illusione.
28.
La crisi dell’unione monetaria non è crisi delle bilance dei
pagamenti, non è
crisi delle bilance di partite correnti, non è crisi delle bilance
commerciali. Questo
– come sostennero Joseph Halevi e chi scrive, contrapponendoci alla
diffusa distrazione degli economisti di sinistra nel 2005 (quasi tutti
convinti che il problema fosse il Patto di Stabilità, e impegnati in
una dubbia
battaglia per la ‘stabilizzazione del debito pubblico’) –
ovviamente non
significa affatto che quegli squilibri non abbiano effetti reali
devastanti. Non
comportano però, direttamente, una messa in crisi dell’euro.
29.
«In un’area monetaria unica, gli squilibri sono la norma»
(Marcello De Cecco).
In un’area monetaria unica, dove c’è un sistema unico dei
pagamenti, esiste
un meccanismo automatico di riaggiustamento dei disavanzi di
partite correnti dal punto di vista dei rapporti debito-credito. Si
chiama TARGET 2.
30.
Ha ragione Randall Wray: Imbalances,
what imbalances? Gli squilibri
finanziari si
equilibrano. Il problema è piuttosto che gli squilibri finanziari segnano
rapporti di potere asimmetrici, e io aggiungerei, dietro i ‘rapporti di
potere’ stanno ‘rapporti di classe’.
31. La struttura istituzionale dell’euro è sicuramente nata fallata. Lo si sapeva, prima: non si doveva entrare nella moneta unica. Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni si ricorderanno che ne parlammo all’epoca e quando la sinistra, incluso il partito di cui facevano parte e che era ben dentro il ‘recinto’, votò per entrare nell’euro. Un errore di cui paghiamo care le conseguenze.
32.
Questo non significa neppure che la struttura istituzionale dell’euro
sia rimasta immobile.
Si sono verificati importanti mutamenti, prima con Trichet e
poi con Draghi. Per esempio: benché sulla carta la Banca centrale
europea non
dovesse essere un prestatore di ultima istanza, essa lo è diventata
sempre di
più, prima delle banche e poi, sia pure indirettamente degli stati.
33.
L’euro è qui per rimanere – anche se non è affatto detto che
rimarrà nel lungo
termine (e però si sa che nel lungo periodo siamo tutti morti). Le due
affermazioni non sono contraddittorie. Il progetto di Draghi,
appoggiato a
più riprese da Angela Merkel, è di costruire quello che attualmente non
esiste, un soggetto capitalistico unico, seppur articolato, su scala
europea e,
se non ancora un governo europeo, almeno una governance
europea. Le
unioni monetarie dollaro, marco, lira non sono state costruite a
tavolino, ma
con guerre e repressioni.
34.
Ci sono alternative? Nel passato, senz’altro ne abbiamo avute: la
‘moneta comune’,
per esempio. Io, non per particolare originalità, ma perché in
dialogo con
Suzanne De Brunhoff, l’avevo presentata da noi come alternativa alla
‘moneta unica’. È diventata di moda dopo un pezzo di Frédéric
Lordon. Si
tratta dell’applicazione all’Europa del bancor
di Keynes, della sua proposta a
Bretton Woods: si tratta di una moneta non circolante, come è invece l’euro;
è una moneta delle banche centrali (in questo caso, delle nazioni
aderenti in
Europa). L’idea originaria (proposta allora, mi pare, anche di
Jacques Mazier)
prevedeva comunque un sistema di parità fisse ma aggiustabili, e
includeva come parte essenziale il controllo dei capitali. Andava
integrata in
una più generale idea di sistema internazionale di cambi basato
sulle target
zones, come ne scriveva allora
Francesco Farina.
35.
Oggi la transizione dalla situazione attuale alla moneta comune non è semplice.
Non si vede come si possa manovrare una fine coordinata dell’euro.
Se quel coordinamento fosse possibile, forse anche la trasformazione ‘morbida’
dell’euro sarebbe possibile. Ne dubito fortemente.
36.
Una cosa è non entrare in una unione monetaria, un’altra è
uscirne. Non è la
stessa cosa che svalutare: ciò in passato ha favorito soprattutto il
sistema delle
piccole e medie imprese, e le esportazioni, ma non si è accompagnato a
nessuna politica industriale e strutturale che migliorasse nel lungo termine
la qualità della nostra configurazione produttiva.
37.
Non equivale neppure all’uscita dal Sistema Monetario Europeo, come
nel 1992-1993.
Vicenda che peraltro si accompagnò alla distruzione di quel poco
che restava del sindacato come soggetto autonomo. Siamo in una ‘grande
crisi’, non in una crisi congiunturale; una grande crisi
‘capitalistica’, che
non equivale a crollo (tutt’altro): separa un capitalismo morente da
un altro modello emergente, di cui non si vedono ancora chiaramente i tratti.
Il paragone è valido solo nel senso che non è affatto escluso che
uscire dall’euro
preluda a più, e non meno, austerità.
38.
Anche l’idea dei due euro incontra la stessa difficoltà di cui si
è detto: come
passi di qui a lì. Peraltro, l’idea che i Paesi dell’Europa del
Sud siano in
condizioni analoghe perché tutti hanno un disavanzo di bilancia
corrente è
falsa: non esiste un modello della periferia, sono modelli diversi, come
dimostra il periodo 2001-2007.
39.
Un euro dell’Europa del Sud riprodurrebbe, mutata la scala, le
stesse contraddizioni dell’euro,
con l’Italia o la Francia al posto della Germania.
40.
Esiste il problema di collocare in queste dinamiche la Francia. È la
Francia, peraltro,
l’ispiratrice dell’euro. Ed è questo il progetto di lunga durata
del suo
capitale finanziario. Ma i suoi dati macroeconomici, di finanza
pubblica, di
equilibrio esterno, di stato dell’industria, di solidità del
sistema bancario, tutto
sono meno che sani. È il paese che con la Germania più ha goduto dell’euro,
forse persino di più: basta guardare allo spread con il tasso sui Bund
decennali tedeschi. È la Francia, più che la Germania, il problema.
41.
Smantellamento ordinato dell’euro: più facile a dirsi che a farsi.
42.
Riacquisizione della sovranità monetaria: illusoria parola d’ordine,
pur così diffusa
oggidì. Non so se abbiamo mai goduto davvero di sovranità monetaria (chi
ne parla ha nozioni di storia e politica non poco abborracciate), ma
certo le
svalutazioni non sono state gentili con il ‘popolo’ italiano.
43.
Ancora sulla questione bilance delle partite correnti: non si deve
dimenticare, come
sulla questione bilancio pubblico, che a ogni debito corrisponde un credito.
Per esempio, chi dice: «Non paghiamo il debito» deve sapere che, dietro
il debito pubblico, c’è il credito privato delle famiglie. Classi
medie. Lavoratori.
44.
L’attenzione, oggi particolarmente alta, sulle bilance delle
partite correnti dà
l’illusione di ‘vedere’ i flussi (netti) di finanziamento tra
Paesi negli squilibri
tra centro e periferia. Non è vero: un Paese può avere una bilancia in
pareggio e finanziare le spese autonome completamente all’estero,
il che
origina depositi che rimangono all’interno; ma quei finanziamenti
potrebbero essere
precari, e svanire dalla sera alla mattina. Bisogna, insomma, guardare
ai flussi lordi e non ai flussi netti del finanziamento se vogliamo capire
qualcosa dell’economia di oggi, come ci ricordano a ragione per
la crisi globale Borio e Dysiatat.
45.
In un sistema con moneta credito – come tutti i sistemi di moneta
moderna – questi
squilibri possono essere prorogati all’infinito. Dipende dalla
banca centrale:
se impedisce il rifinanziamento dell’economia, questo significa
puramente e
semplicemente il crollo. Le riserve sono endogene: non c’è
moltiplicatore, c’è
divisore del credito bancario. In realtà, la Banca centrale europea sta
gestendo la trasformazione del sistema europeo e la ristrutturazione dei
rapporti sociali, dal lavoro al welfare, transitando da una crisi all’altra,
sempre impedendone però la degenerazione.
46.
Esistono alternative più generali di politica economica? Sì. Una è
la ‘modesta proposta’
di Yanis Varoufakis, prima da solo, poi con Stuart Holland, ora
con Jamie Galbraith. Bertinotti ricorderà che feci venire in Italia Varoufakis anni fa (organizzai anche un incontro con Ferrero e il PRC) e già
allora lui
ricordò il parallelo della situazione attuale della Grecia con
quella della Germania,
il trattato di Versailles e il giudizio di Keynes.
47.
Varoufakis, con Holland e Galbraith, propone gli eurobond, una
mutualizzazione del
debito che consenta su scala europea investimenti infrastrutturali, e
un’autentica unione bancaria. Io aggiungerei la necessità di
un’espansione co-ordinata
delle spese pubbliche, che permetterebbe di aggirare la strozzatura
di un bilancio europeo ridicolmente limitato il quale strangola nella
culla la possibilità di una politica fiscale espansiva.
48.
Credo però anche che tutto ciò vada inserito in un quadro
concettuale e politico
(anche di politica economica) più ampio. Non dobbiamo semplicemente tornare
a Keynes, dobbiamo andare oltre Keynes, per un certo verso
tornando a prima di Keynes, cioè al New
Deal. Con Halevi lo diciamo dal
2008, anzi in verità da prima della crisi, quando sostenemmo, presi amichevolmente
in giro dalla sinistra politica ed economica, la necessità di
un aumento, non di una stabilizzazione, del rapporto debito/PIL. C’è
arrivato prima
(a suo modo) Giavazzi.
49.
La ‘ripresa’ non va separata da ciò che Keynes, in una lettera a
Roosevelt, chiamava
la ‘riforma’: le politiche economiche espansive contro
l’austerità non
vanno separate da una diversa e migliore composizione della
produzione, e
dall’obiettivo della piena e buona occupazione, con lo Stato che si
fa promotore
di entrambi gli obiettivi, insieme e simultaneamente. Keynes li vedeva
in sequenza: prima la ripresa, poi la riforma. Io li vedo come
contemporanei.
50.
Già nel 1993, in un articolo chiestomi da Raniero La Valle, uscito
su «Bozze»
(e che probabilmente non ha letto nessuno) avevo sostenuto una tesi
del genere, richiamando il ‘Piano del lavoro’ della CGIL della
fine anni
Quaranta, come anche l’‘esercito del lavoro’ di Ernesto Rossi e
Paolo Sylos
Labini.
51.
Soltanto dentro un discorso del genere assume una valenza positiva l’erogazione
di un reddito di esistenza, condizionato alla prestazione di un lavoro
‘sociale’ nell’arco vitale. Altrimenti, come osservò in un
dibattito su
«il manifesto» Giovanna Vertova,è strumento di una rinnovata Speenhamland,
su cui sia Polanyi che Marx si sono espressi molto criticamente, del
tutto a ragione.
52.
Caduto il consumo a debito, impossibile l’esportazione netta di
merci sulla luna,
insufficiente la spinta degli investimenti a chiudere il circuito
monetario (non
soltanto nella crisi, ma anche quando le cose vanno bene), l’unico possibile
motore dello sviluppo è la spesa pubblica in disavanzo, che da
sinistra va
finalizzato a un differente ‘cosa, come, quanto’ produrre.
53.
Dal debito si esce o con la sua remissione, o con la bancarotta, o
con l’inflazione,
o con la crescita (magari declinandola come sviluppo). Negli Stati
Uniti, come ci insegna Jamie Galbraith, a un certo punto il debito
ipotecario decade,
in un modo o nell’altro. In Europa si sta imponendo la sua permanenza
perinde ac cadaver,
bloccando le varie strade per alleggerirlo o cancellarlo.
Non è una situazione sostenibile, e prima o poi una via d’uscita sarà
trovata, e includerà una espansione della spesa pubblica. Non è
detto che
si configuri come una uscita di sinistra.
54.
La via di sinistra esiste, ed è quella di Minsky (non nella lettera,
ma nello spirito):
socializzazione dell’investimento, socializzazione
dell’occupazione, socializzazione
della finanza. Nel libro Keynes e
l’instabilità del capitalismo
la socializzazione dell’economia
viene delineata come una critica
del keynesismo, dei trentes glorieuses
(come vengono chiamati oggi),
di Keynes stesso.
55.
La via d’uscita può essere detta con le parole di Alain Parguez:
«dobbiamo pianificare
dei disavanzi ‘buoni’, altrimenti il neoliberismo non cancellerà il
disavanzo, ma creerà anzi, per così dire automaticamente, deficit ‘cattivi’».
56.
A fronte del disavanzo e del debito pubblico sta comunque un attivo
del settore privato,
crediti finanziari. I disavanzi ‘buoni’ di Parguez, come la
triplice socializzazione
dell’economia di Minsky, creano però anche valori d’uso sociali.
57.
L’orizzonte di lungo termine degli investimenti, la capacità
innovativa, la crescita
della produttività nel sistema, l’espansione dell’occupazione
sono tutti
elementi che dipendono strettamente da un intervento statale
‘mirato’.
58.
È su questa dimensione strutturale dell’intervento pubblico che si
giocano, come
caratteri trasversali ed essenziali di una politica economica
‘alternativa’, la
questione del genere e quella della natura. Non posso entrare nel merito
delle due dimensioni qui.
59.
Ciò di cui c’è bisogno non è affatto il ‘ritorno al
keynesismo’ (fosse anche una
introvabile ‘lezione di Keynes’, al singolare), tanto meno una
spesa pubblica generica,
quando non militare – è questo il keynesismo reale, non un fantomatico
modo statuale di produzione. A una spesa pubblica mirata fa da contraltare
il welfare, non nel senso della assistenza ma di provvedimenti in natura.
È questa un’altra tesi anche di Minsky, di cui è appena uscita in
inglese una
raccolta di scritti, Ending Poverty:
Jobs, Not Welfare (con Laura Pennacchi ne
abbiamo curato l’edizione italiana). La critica è a un welfare
di meri trasferimenti
monetari (in cui ricadono le proposte di basic
income). Non a uno
Stato che provvede istruzione, sanità, e così via.
60.
La risposta alla domanda se ci vuole austerità non è
semplicisticamente no.
E non solo perché aumentare la domanda effettiva non basta. È anche sì,
perché vogliamo una ridefinizione in profondità della composizione della
produzione, una ridefinizione del modello di consumi. E di questo fa parte,
necessariamente, sia una austerità della classe dominante, sia una vita
più sobria di tutte e tutti.
61.
Vale lo stesso atteggiamento sulle riforme strutturali. Certo che
vogliamo le riforme
strutturali. Le nostre riforme strutturali. Cosa è se no la politica
(e politica
economica) che si è qui delineata?
62.
Tutti gli interventi espansivi che è necessario approntare sul
terreno macroeconomico non
sono separabili da una politica industriale parimenti attiva e
orientata.
63.
Una attenzione alle dinamiche dell’industria, e della struttura
produttiva più
in generale, incide non poco sul modo di guardare alle dinamiche
europee nella
stessa vita dell’euro.
64.
Chi pensa e continua a ripetere che il vantaggio competitivo
nell’eurozona dipenda
esclusivamente dalla variazione dei prezzi relativi, e lo riduce all’aumento
del costo del lavoro per unità di prodotto in una generica
periferia, ha
torto.
65.
La tesi che la Germania deve il suo attuale primato alla deflazione
salariale, alla
compressione dei salari nominali, non dice cose false: dice una parte della
verità, e forse non la più importante.
66.
La competitività tedesca è data anche dalla qualità della
produzione che esporta
(macchine, beni di consumo di qualità, e così via). Ciò le dà un monopolio
che la rende almeno in parte indipendente dalla dinamica dei prezzi
relativi e dai rapporti di cambio.
67.
La Germania esce da una politica di ristrutturazione della produzione
e di riorganizzazione
del lavoro lunga ormai quasi più di un ventennio, che ha dato
origine ad una lunga catena transnazionale della produzione di valore che
si estende a Est. Dentro questa catena si mescolano (e si integrano) precarietà
e punte avanzate.
68.
Anche per questo l’idea di una ‘via alta’ del capitale è pura
fantasia.
69.
Quello che sta avvenendo è che la Germania importa relativamente di
più da oriente e
relativamente di meno dal mezzogiorno d’Europa – anche per questo
le nostre
catene ‘ricche’ della subfornitura tedesca sono sotto pressione.
70.
I Paesi del Sud d’Europa non sono integrati orizzontalmente: fanno
centro sulla
Germania.
72.
Su questi temi è prezioso il contributo di Ginzburg, Simonazzi,
Nocella, sul
numero di marzo del «Cambridge Journal of Economics». Questi autori osservano
anche, del tutto a ragione, che le misure sul costo del lavoro per
unità di prodotto sono molto ambigue a livello aggregato, dipendendo dall’indice
dei prezzi (e dunque dal paniere) preso a riferimento. Gli stessi risultati
sul caso italiano cambiano drasticamente a seconda dell’indice prescelto.
73.
Devo essere ancor più telegrafico sul caso italiano. Nel caso
dell’Italia una delle
ragioni della bassa dinamica della produttività dipende dalle
politiche di
privatizzazione e precarizzazione dagli anni Novanta, quale che fosse
il colore del governo, e rispetto alle quali il nostro Paese è stato
una punta
di avanzata (e deleteria) sperimentazione.
74.
A questo si aggiunge la crisi del modello dei distretti, a cui ha
fatto resistenza l’emergere
di un cosiddetto ‘quarto capitalismo’ di multinazionali
tascabili. Non
sarò certo io a negarne la vitalità. Ciò non toglie che si tratti,
sostanzialmente, di
un’esperienza di nicchia e marginale: su di esso non è possibile ‘fare
sistema’ (vale qui la critica di Minsky al modello dei distretti che
risale alla metà degli anni Ottanta, come la si legge in una
recensione a un
libro famoso di Piore e Sabel).
75.
La via delle riforme strutturali che si è qui delineata può essere,
se volete, qualificata
come un keynesismo strutturale, con suggestioni schumpeteriane (una
prospettiva tipica di Augusto Graziani). Assomiglia però
dannatamente a
una forma di socialismo: lo scriveva lo stesso Minsky nel suo libro
del 1975,
anche se poi lo avrebbe incluso tra le ‘57 forme di capitalismo
possibile’ (il
riferimento è alla pubblicità del ketchup della Heinz).
76.
Non penso, come forse pensava Minsky (ma si potrebbe discuterne), che
si tratti
di una configurazione stabile, a prescindere dalle ricorrenti derive verso
l’instabilità finanziaria. Sono piuttosto convinto che avesse
ragione Kalecki
nel 1943 che qualsiasi forma, anche mista, di capitalismo incontra un
limite nella natura capitalistica dei rapporti sociali, innanzitutto
nei luoghi
di lavoro.
77.
Le cose che sto dicendo sono agli antipodi con la musica che gira
intorno, cioè
con quello che la sinistra politica e intellettuale, in economia e
sociologia, va
dicendo da un bel po’.
78.
Sulla sinistra politica, per carità di patria, visto che non si
parla male dei morti
(anche se si può sperare, contro ogni speranza, nella risurrezione), non
dirò nulla.
79.
Sulla sinistra in economia. Si è ricondotta la crisi alla caduta
(tendenziale) del
saggio del profitto. A parte il fatto che la crisi del cosiddetto
‘fordismo’ è
dovuta sì a una caduta della profittabilità, ma quest’ultima non
discende dalla
crescita della composizione in valore del capitale ma semmai (insieme
ad altri, molteplici, fattori) da un conflitto e un antagonismo nei rapporti
sociali di produzione, è dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso
che non soltanto la quota ma anche il saggio dei profitti è andato recuperando,
sostanzialmente sino allo scoppio della Grande Recessione.
80.
Si è parlato di una crisi da domanda, ma in realtà di sottoconsumo
(la crisi di
un ‘mondo dei bassi salari’, si è detto). I bassi salari sono
ben reali. Ma la crisi
capitalistica non è mai semplicisticamente dovuta ai ‘bassi
salari’, e tanto
meno al ‘sottoconsumo’ (lo dichiaravano a chiare lettere sia Marx
che Rosa
Luxemburg, se solo uno si prendesse la briga di leggerli sul serio;
il basso
consumo è la causa ‘ultima’ delle crisi, dunque non ne spiega
nessuna). Il
modello neoliberista è stato piuttosto un modello di sovraconsumo. La
crisi, come sapevano appunto Marx e Luxemburg, ma anche Keynes e i suoi
collaboratori più stretti, è semmai una crisi da sottoinvestimento
(o, più in
generale, da insufficienza della domanda autonoma).
81.
Si è proclamato per molto tempo che il neoliberismo fosse una realtà
di stagnazione permanente.
Io sto con Sweezy che al quesito che si rivolge: «sto forse
avanzando la tesi che il capitalismo viva in una stagnazione
permanente? »,
replica in sostanza «quando mai».
82.
Si è trattato di un keynesismo privatizzato trainato dalla finanza
(dalle bolle nello
stock exchange e
nell’housing)
grazie a una politica monetaria della
Banca Centrale come prestatrice di prima istanza alla speculazione (De
Cecco 1998), in un contesto in cui la cosiddetta curva di Phillips si
era appiattita
sin quasi a divenire orizzontale (la riduzione della disoccupazione non
dava origine ad un aumento dei salari e dei prezzi per ragioni
interne) –
qualcosa che si capisce con Marx, non
con Friedman.
83.
Il neoliberismo è stato una configurazione dinamica del capitalismo,
spinta dalle
controtendenze alla deriva stagnazionistica, secondo la lezione che
discende da
Kalecki o Steindl, o dalla «Monthly Review» (sto di nuovo con lo Sweezy
che temeva le controtendenze quanto, se non più, della tendenza). Se
vogliamo capirne la crisi dobbiamo cercare le contraddizioni interne
al suo
dinamismo. Per questo contrapporre la ‘crisi del capitalismo’
alla ‘crisi del
neoliberismo’, come fanno i marxisti puri e duri, è sbagliato.
84.
L’orizzonte interpretativo del capitalismo odierno come
finanz-capitalismo è
affascinante, e dice cose molto giuste. Si basa però su una idea di
fondo: l’estrazione
di valore via circolazione. Non credo si possa ridurre il capitalismo a
una rapina permanente.
85.
L’analisi che vi ho proposto non ‘parte’ da un primato della
coppia domanda- distribuzione,
in cui il problema ultimo è la diseguaglianza (spero proprio che
nessuno possa pensare che io reputi questi problemi come
irrilevanti). ‘Parte’
da produzione-finanza, e da questo ‘centro’ si estende agli altri fenomeni,
che sono, in senso stretto, secondari, cioè derivati.
86.
Sul terreno della politica economica, la gran parte degli economisti
di sinistra italiani
appartiene oggi a quello che, in modo semiserio, definisco come ‘keynesismo-leninismo’.
In battuta: abbiamo gli strumenti tecnici, se solo fossimo
noi i consiglieri del Principe… Se la Banca Centrale è prestatore
di ultima
istanza, non vi sono limiti oggettivi al debito pubblico. Il Tesoro
non ha
difficoltà a svolgere politiche di pieno impiego. I vincoli sono
politicoistituzionali.
87.
Da un lato l’economia, riducibile a tecnica. Dall’altro la
politica, riducibile a
gestione del potere. I rapporti sociali sono scomparsi. Il
riferimento è in
fondo Hilferding, l’Hilferding di cui appunto Lenin fu attento
lettore. L’idea
(la citazione è da Brancaccio e Cavallaro) è che «gli unici, veri conflitti
di liberazione che hanno meritato nel secolo scorso e meriteranno in
questo secolo di esser definiti tali saranno quelli miranti alla
conquista delle
casematte dentro gli apparati dello stato. È infatti nella capacità
o meno
di permeare quegli apparati, di muoverne le leve e al limite di
stravolgerli, che
si concretizza la battaglia tra repressione e rafforzamento del capitale
finanziario, che si definiscono i caratteri cruciali del regime di sviluppo,
che si quantificano le possibilità concrete di pianificare la
liberazione del
lavoro dal dominio di una potenza estranea».
88.
Qui vedeva lontano Paul Mattick: il keynesismo-leninismo è un
marxismo che,
proprio come la solidarietà antitetico-popolare che opponeva Seconda
e Terza
Internazionale, vede nel comando statale l’alfa e l’omega. La
stanza dei
bottoni in cui ‘entrare’, per illudersi di governare il processo
capitalistico, o
per spezzarlo come strumento borghese, senza però cambiarne in fondo la
natura. Nulla di più lontano dalla visione che propongo, che è
sociocentrica e
che vede nella pressione dal basso l’unica garanzia che una
politica economica
alternativa non si riduca ad autopromozione di quelli che Minsky
chiamava economists-courtiers,
candidati consiglieri del Principe (come
in Minsky, la caratterizzazione non va intesa come un insulto, semmai come
tragedia).
89.
Non amo il termine ‘globalizzazione’, qualcosa che a mio parere
non esiste. Parliamo
semmai di transnazionalizzazione della finanza,
transnazionalizzazione della
produzione: ma il termine ‘globalizzazione’, come quello di
‘postfordismo’, come
lo stesso ‘pensiero unico’, sono definizioni vuote che generano solo
confusione.
90.
Trovo il nesso capitalismo finanziario/mancanza di democrazia non
completamente convincente
anche per altre ragioni. Innanzitutto (mi pare che dicesse
qualcosa del genere anche Gnesutta), in questo ‘nuovo’
capitalismo è
davvero difficile separare profitto e rendita, finanza (cattiva) e
impresa (buona).
91.
Il ‘nuovo’ capitalismo nasce dalla crisi del keynesismo, che
esplode negli anni
Settanta ma che cova già dalla seconda metà degli anni Sessanta. Il libro
di Wolfgang Streeck (il cui titolo originale, Gekaufte
Zeit, tradotto letteralmente,
«Tempo comprato», è molto più appropriato di quello che gli
è stato dato in italiano: Tempo
guadagnato) ha molti limiti, che fanno però
il paio con l’enorme merito metodologico che ne fa un esempio quasi unico.
Torna, finalmente e adornianamente, a una analisi del capitalismo in
termini di totalità sociale unitaria. E dice anche molte cose
giuste. Come, per
cominciare, che il modello keynesiano va in crisi per un conflitto dei
soggetti sociali a partire dal mondo del lavoro (la profezia del
Kalecki del
1943, appunto).
92.
Cade anche, se non soprattutto, da sinistra: non solo per il
conflitto operaio; cade,
tra l’altro, per la critica ecologista, e per quella del movimento delle
donne. La sua fine l’abbiamo voluta noi. Possiamo sempre pentircene (io
no), ma questa è la realtà delle cose. E cade, certo, anche per uno ‘sciopero
del capitale’. Per il disegno di smantellare quei conflitti e
quegli antagonismi,
e di evitarne la riproposizione (la sussunzione reale del lavoro alla
finanza e al debito, la centralizzazione senza concentrazione, la ‘traumatizzazione’
del lavoro, la precarizzazione universale, le nuove forme
di gestione della politica monetaria ed economica di cui parlo, tutto ciò
calza in questo quadro come un guanto).
93.
Anche per questo dubito che basti la ‘persuasione’ per tornare a
un keynesismo (finalmente?)
buono, come mi pare traspaia dai vari appelli e lettere degli
economisti, dalle varie prese di posizione che si vogliono
‘keynesiane’. Penso
che sia impossibile rimettere il dentifricio nel tubetto.
94.
L’opposizione non è tanto capitalismo finanziario/democrazia, come
dicono le
Tesi: è semmai capitalismo/democrazia, tout
court. Presentai all’Unione culturale
il libro di Fausto Bertinotti (sarà stato il 1991 o 1992) La
democrazia autoritaria.
Era fresca la memoria delle tesi dell’ultimo Napoleoni, che
sosteneva, con ragione, che il capitale (il capitale in quanto tale,
non il capitale
finanziario) ha in sé una tendenza totalitaria. La democrazia gli
viene ‘da
fuori’, dalle lotte.
95.
In verità, a me pare che noi viviamo in un mondo che è quello che
riproduce su
scala globale il capitalismo britannico di metà Ottocento, in
presenza di
un movimento operaio come quello inglese di inizio Ottocento. Quel
capitalismo che si colloca sul Weltmarkt, sul ‘mercato mondiale’; quel
capitalismo in cui il movimento operaio (oggi, ma anche allora,
dovremmo dire:
dei lavoratori e delle lavoratrici) non era un dato, era una costruzione,
e una costruzione dal basso; quel capitalismo che ‘formava’ la
classe operaia inglese integrando estrazione di plusvalore relativo e
plusvalore assoluto,
come ci ricorda Massimiliano Tomba. Un ritorno al passato che
è il nostro futuro, e che è la vera novità del capitalismo dei
nostri giorni:
le nuove forme del vecchio sfruttamento.
96.
Fino a qui mi sono tenuto prevalentemente a giudizi di fatto, come
faccio quasi
sempre: è un mio limite, quello di non avventurarmi troppo sul
terreno normativo.
C’è però un giudizio che mi può essere contestato come ‘grande
ottimismo’: quando dico che sindacato e sinistra dovrebbero
muoversi sulla
‘scala’ su cui si muove Draghi, cioè almeno sulla scala europea. Ho
detto movimenti dal basso, ma i movimenti dal basso non esistono nell’innocenza
della spontaneità ‘pura’ (Rosa Luxemburg, per dirne una, ha
fatto parte di almeno tre partiti, e uno se non due li ha fondati).
Nel mio sfrenato
ottimismo, non dico quello che penso, che ciò che vorrei è
impossibile: mi
limito a dire che è quasi impossibile.
97.
Questa prospettiva può essere accusata di idealismo. A me sembra
però l’unica
modalità seria di portare avanti una prospettiva materialistica nel senso
di Marx. Il movimento operaio non è nato dalla testa di Giunone: è nato
rispondendo a una frammentazione e a uno sfruttamento estremi.
98.
L’uscita individuale dall’euro, la disobbedienza di un solo
Paese, la costruzione di
un euro del Sud-Europa sono tutte prospettive problematiche. Sempre più
assumono un colore ambiguo nelle pretese di una dubbia riconquista di
una ‘sovranità’ monetaria ‘nazionale’, da parte del
‘popolo’, a salvezza di una
‘impresa’, di cui il lavoro diviene parte ‘organica’ e
subalterna.
99.
Nel caso di una rottura dell’euro, ben possibile, una via di
sinistra esiste solo lungo
questo percorso. Altrimenti, il richiamo alla sovranità monetaria – che
molti economisti di sinistra corteggiano, quando non cavalcano –
sarà il richiamo
del sovranismo. E non è un bel richiamo.
100.
Come dichiara un bell’appello per una Europa egualitaria (e
federale), con primi
firmatari Karl Heinz Roth e Zissis Papadimitriou, occorre partire da un
collegamento delle contro-iniziative dal basso, di resistenza
sociale; da una
progressiva estensione alle classi subalterne e alle classi medie
meno agiate
di un programma di tutela dei loro interessi materiali; da una
alleanza con
i movimenti sociali contro le tentazioni eurocentriche, o le derive
nazionalistiche o
populistiche.
Una
poesia di T.S. Eliot, The Hollow Men,
si chiude su questi versi: «This is the way the world
ends, / Not with a bang but a whimper». Consentitemi
una parafrasi: È così che muore
l’euro, non con un botto ma con un gemito. Allo stato, penso che
sia molto difficile che
la prospettiva Draghi-Merkel proceda senza intoppi perché non si
vede da dove ci si
possa globalmente procurare la domanda finale. Prendo però
estremamente sul serio il ‘whatever
it takes’ di Draghi, la difesa dell’investimento politico e
sociale sulla costruzione dell’euro. Napoleoni
vedeva nel ‘vincolo esterno’ qualcosa che poteva e doveva
spingere a una ridefinizione
strutturale della nostra economia e società. È una prospettiva che
prenderei con
un grano (abbondante) di sale, pari a quello con cui prenderei la
proposta alternativa della
svalutazione come ‘salvezza’ del Paese e della democrazia.
Napoleoni ha sempre valorizzato
quello che chiamava ‘vincolo interno’: le lotte distributive, ma
anche nella produzione,
dei lavoratori e delle lavoratrici (un punto che Bertinotti ha spesso
ripreso). Napoleoni
ha però anche sempre avvisato: guardate, questo non basta. Dobbiamo proporre
un ‘altro’ modello. «Credo che le sinistre siano giunte ad un
punto di snodo, ad un
bivio, in cui si presentano due strade: una strada consiste nel
tentare di risolvere meglio degli
altri i problemi che gli altri si pongono […]. L’altra strada è
quella di mutare in maniera
radicale le prospettive, gli obiettivi e perciò anche gli strumenti,
di contrapporre veramente
al modello degli altri un altro modello». Oggi non bastano la pura e
semplice reflazione,
o il ritorno al keynesismo. Occorre un altro modello di economia e
società. Il mio
richiamo a Minsky sta in quella ispirazione. È
un’ispirazione utopistica? Possibile. Va intesa come la intendeva
Gramsci al tempo delle
Tesi di Lione. Non un programma di governo, oggi improbabile. Semmai
un programma su
cui raccogliere le forze, organizzando lotte in cui i soggetti
sociali plurali, su scala
transnazionale, si connettono tra di loro: in una lotta
progressivamente sempre più di
massa, che apra ad un coerente orizzonte alternativo allo stato
presente. Fare questa cosa
non è la stessa cosa che convocare bei convegni, non è scrivere bei
saggi, non è pronunciare belle
lezioni. Richiede di avviare, qui e ora, senza garanzie di successo,
un lavoro sociale
e politico che, a tutt’oggi, non siamo ancora stati in grado
neanche di iniziare a pensare
davvero. È ora. Se non ora, quando?
Questo scritto è stato originariamente pubblicato come intervento nel volume della Fondazione Cercare Ancora, Capitalismo finanziario globale e democrazia in Europa, Roma, Ediesse, 2014, pp. 88-105.
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