Da
Al Cuore Della Terra e Ritorno *
di Piero Pagliani
che per il capitalismo la natura è un «dono gratuito».
La loro “gratuità” non sta nel fatto che esse non richiedano un lavoro produttivo e riproduttivo, ma che esso può, finché i limiti geo-socio-ecologici lo permettono, essere suddiviso in una parte interna e una parte esterna, dove i due aggettivi sono riferiti alle posizioni relative dei centri produttivi nella gerarchia ramificata dalle formazioni geo-socio-ecologiche particolari. E’ questa dialettica interno/esterno che fa sì che il capitalismo non si curi delle sofferenze della società e della natura, se non nella misura in cui esse entrano in contrasto con il processo di valorizzazione e solo nella misura in cui il capitalismo può intervenire su queste sofferenze
senza negarsi.
senza negarsi.
Nella sua formulazione limite, questa contraddizione è colta da Marx quando afferma che il capitalismo farebbe volentieri a meno della forza lavoro, ma non può. Infatti, dato che la forza lavoro non solo è natura-nella-società, cioè natura socializzata tramite il suo rovesciamento, ma è anche società-nella-natura, cioè limite sociale a quel rovesciamento reificante, il capitalismo farebbe volentieri a meno della società e della natura, dell’operaio e del valore d’uso. Ma non può farlo. Detto in altri termini, il capitalismo vorrebbe un mondo fatto a immagine del dualismo cartesiano, col soggetto (il capitalismo) da una parte e dall’altra un oggetto (la “socio-natura”) esente dalle contraddizioni che il soggetto in esso genera e soprattutto quelle indotte dalla sua necessità di riprodursi materialmente e socialmente (cosa testimoniata anche dal tentativo di occupare tutto il ciclo delle 24 ore con i processi di produzione e realizzazione - cosa che tra l’altro ha come conseguenza che è difficile distinguerli). D’altronde che altro clima culturale stava preparando la rivoluzione filosofica dell’empirismo inglese se non quello che avrebbe permesso «agli Stati e a i capitali europei di vedere il tempo come lineare, lo spazio come piatto ed omogeneo la “natura” come esterna alle relazioni umane»? (Jason Moore) (1)
Ma dato che l’uomo entra in contatto con la natura solo socializzandola, nella società rovesciata il capitalismo le impone i suoi fini e i suoi mezzi così che i limiti naturali diventano immediatamente limiti sociali e i limiti sociali diventano immediatamente limiti naturali. Perché la natura si manifesta all’uomo attraverso la sua organizzazione sociale e da essa è trasformata (2). Ne segue che i “limiti fisici” si presentano come limiti geopolitici, sociali, economici e organizzativi. Quindi i “limiti sociali” della natura si possono rivelare prima di quelli fisici.
2. La finanziarizzazione è il massimo tentativo di valorizzazione senza società, senza natura, senza forza-lavoro. Da qui i miti della scomparsa della legge del valore. Ma è qui, al contrario, che il modello di Marx di un’economia di puro debito tratteggiato nel III Libro del Capitale si rivela proprio come il compimento della legge del valore. Il concetto stesso di debito, consustanziale alla sfera finanziaria, cioè la differenza tra una ricchezza futura da restituire e una ricchezza passata anticipata, tra un futuro che guarda indietro e un passato che guarda avanti, insomma il paradosso di un presente condizionato dal futuro, non fa altro che rilanciare il richiamo della foresta al quale il capitale deve necessariamente rispondere: la natura infine è la fonte di ogni ricchezza mentre il lavoro alienato (che è natura-nella-società capovolta e quindi natura anch’essa capovolta) è la fonte del valore, ovvero di ciò che fornisce
l’unica metrica della ricchezza nella società capitalistica.
La teoria del valore di Marx si rivela quindi essere una teoria della trasformazione capitalistica della natura, ovvero della sua mercificazione. Dualmente anche la natura interviene non come fattore esterno ma come natura-nella-società (capovolta), ovvero come natura prodotta per i processi capitalistici, che appare sia direttamente come input, cioè natura da trasformare in merci, sia indirettamente, ad esempio come consumo di energia extraumana ed umana per incrementare la produttività.
In entrambi i casi si ha una contropartita in termini di entropia
In entrambi i casi si ha una contropartita in termini di entropia
I processi e i cicli capitalistici hanno quindi a che fare intrinsecamente col concetto di “limite naturale”. Limiti naturali hanno spinto verso il capitalismo termoindustriale occidentale. Si tratta ora di vedere se nuovi limiti naturali possono o meno produrre un capitalismo 2.0, non termoindustriale. Credo che oggi nessuno sia in grado di rispondere. Tuttavia possiamo cercare di indagare le premesse a una risposta.
3. I limiti naturali sono limiti per il capitalismo perché esso produce spazio e tempo divergenti dallo spazio e dal tempo sociali e naturali (come testimoniano i conflitti e il principio d’entropia): i limiti alla produzione dello spazio e del tempo sono lo spazio e il tempo. La finanziarizzazione non può sottrarsi a questi limiti. Se potesse non ci sarebbe alcun motivo per chiedere massacri sociali. Se ciò accade è perché è, letteralmente, nella natura di ogni modo di essere del rapporto sociale capitalistico:
Il valore si intreccia assieme alle eteree valenze del capitale finanziario e alle prosaiche routine della vita di tutti i giorni in nuove cristallizzazioni di potere e profitto, guidate dalla merce. Sotto questa luce, le relazioni apparentemente esterne del capitalismo verso la natura - rese dai concetti popolari di metabolic rift (3) di scambio ecologico ineguale e di impronta ecologica – si rivelano come relazioni interne, costitutive di nuove e profondamente irrequiete configurazioni socio-ecologiche.
Come ci muoviamo dalla logica del capitale alla storia del capitalismo la tensione multiforme tra l’internalizzazione e l’esternalizzazione della natura
viene in superficie. (J.Moore)
viene in superficie. (J.Moore)
La società e la natura per il capitalismo sono dunque sia ambienti esterni in cui muoversi e operare, sia mondi da rappresentare e da produrre per internalizzarli. Questa internalizzazione entra in contraddizione con la pretesa del capitalismo di vedere sia la natura sia la società come entità altre, meramente misurabili e funzionalizzabili. Insomma come dei servi al di fuori della dialettica servo/padrone. Quella pretesa è parzialmente giustificata dal fatto che col lavoro l’uomo trascende l’ontologia organica perché segue un progetto, perché esplica un’intenzionalità, come sottolinea Lukács (e di fatto Agamben fa lo stesso discorso analizzando la rappresentazione del mondo tramite il linguaggio).
Ma l’intenzionalità è comunque nella natura, non fuori di essa. La differenza tra l’ontologia (e la storia) naturale e quella sociale non deve far credere che Natura e Società non siano l’una nell’altra. Come si vedrà, quella pretesa è una necessità legata al profitto e il capitalismo l’ha realizzata parzialmente, suddividendo la Natura in una parte “interna” e in una parte “esterna” relativamente alla gerarchia ramificata
dei centri di sviluppo.
dei centri di sviluppo.
4. Pensare quindi che la natura non condivida le contraddizioni sociali del modo di produzione capitalistico (ossia che essa sia cartesianamente distinta dalla società capovolta) non ha senso. La risposta alla domanda se nuovi limiti possono spingere a un nuovo capitalismo deve quindi tener conto di tutti gli effetti cumulativi di queste contraddizioni. E il compito non è semplice, perché ne rimanda a un altro simile ma di carattere più generale e di notevole complessità: distinguere ciò che è variante all’interno degli evidenti schemi strutturalmente ricorsivi della storia del capitalismo.
Ma c’è di più. Il ruolo dei fattori ecologici che hanno indotto il salto, la grande divergenza, del capitalismo termoindustriale occidentale, dimostra che non c’è semplicemente un rapporto (anche questo riconducibile al dualismo cartesiano) di causa ed effetto tra un modo di produzione e l’ambiente, ma che le trasformazioni ambientali sono costitutive delle trasformazioni sociali e quindi economiche. Sono parte attiva e non semplici complementi o conseguenze. Ne segue che ha perfettamente ragione Jason Moore quando suggerisce di parlare di “trasformazioni ecologiche” piuttosto che di “crisi ambientali”, perché l’ambiente, come oggetto a se stante, non esiste e perché il significante “crisi” è usato per costruire un catalogo empirico di problemi sicuramente gravi che però ostacola la costruzione di «una teoria che includa siti non convenzionali della storia ambientale - diciamo, i centri finanziari o le fabbriche o l’espansione incontrollata delle periferie come storia ambientale» (Moore).
E come negarlo? Le guerre con le loro distruzioni non fanno parte della storia ambientale? Lo smantellamento di un sistema di sanità pubblico non ha effetti biologici, come la diminuzione dell’aspettativa di vita o persino il prodursi di epidemie? Lo spostamento migratorio di milioni di esseri umani o il loro inurbamento non è storia ambientale? La risposta è: Sì, non soltanto perché banalmente l’uomo è parte della natura, ma anche perché quei fenomeni rivoluzionano le relazioni tra la società e la natura, ovvero rivoluzionano la società-nella-natura. Non esiste quindi cambiamento di fase della storia ambientale che non sia stato contemporaneamente cambiamento di paradigma nella storia sociale, obbligando o giustificando la riorganizzazione delle strutture di potere e di quelle economiche. L’avverbio “contemporaneamente” non deve trarre in inganno: la riorganizzazione delle strutture sociali per far fronte a un cambiamento ecologico non è univocamente determinata in tutto il sistema-mondo e di conseguenza, non lo sono nemmeno gli effetti di retrazione sulla natura-nella-società di detta riorganizzazione.
[...]
5. Tenendo dunque conto che il mondo abitato dagli uomini è una complessità dinamica, possiamo capire meglio perché è più corretto dire che il capitalismo crea lo spazio-tempo e non solo che lo utilizza. Innanzitutto la natura viene trasformata fisicamente (produzione spaziale) e circola nella società capitalistica come prodotto (produzione temporale). Quindi la natura entra nell’orizzonte capitalistico prima perché è prodotta e in seguito perché è usata. In sintesi, viene “sfruttata”. In secondo luogo le risorse naturali sono distribuite in modo ineguale tra varie giurisdizioni e sfruttate in modo ineguale. L’imperialismo di tipo coloniale o compradore ha il compito di far sì che lo sfruttamento delle risorse non sia vincolato dalla loro distribuzione fisica nel mondo. Questa è produzione di spazio geografico.
Infine le risorse naturali diminuiscono in misura direttamente proporzionale all’incremento dell’espansione materiale e, a sua volta, tale incremento aumenta ad ogni ciclo sistemico perché, per rilanciare lo sviluppo dopo una crisi sistemica, il nuovo blocco egemone deve mobilitare più risorse sociali e naturali di quello precedente. Cosa che ha effetto sulle dimensioni appena descritte: occorre aumentare la produzione di natura e diminuire i tempi di circolazione della natura trasformata. Ma innanzitutto occorre assicurarsi la disponibilità delle risorse.
L’aumento di entropia indotto dalla produzione di spazio e di tempo combinandosi in un contrasto ogni volta più violento con limes fisici, biologici, sociali, politici, geopolitici e culturali, fa sì che i cicli sistemici operino su condizioni cumulative di degrado geo-socio-ecologico che implicano una progressiva contrazione dei periodi di sviluppo sistemico, una progressiva espansione dei periodi di caos sistemico, una riorganizzazione in sempre maggiore profondità e ampiezza del capitalismo e
della sua funzione base, la mercificazione.
della sua funzione base, la mercificazione.
In più, questi limes, essendo endogeni allo sviluppo capitalistico, non vengono abbattuti ma spostati (4). Ad essi si aggiungeranno nuovi limes imprevisti che coi primi creeranno barriere sempre più formidabili (la storia recente della ribellione dei Paesi emergenti a una associazione subordinata ai processi di accumulazione guidati dal vecchio centro capitalistico è una chiara illustrazione di questo fenomeno). Quindi le crisi delle risorse naturali si manifestano e si manifesteranno agli uomini tramite il reticolo di relazioni inclusive ed esclusive disegnato dalle istituzioni e dalle organizzazioni sociali, fra cui quelle economiche, che essi si danno.
[…]
Se questo è il quadro analitico di riferimento, allora è impossibile accettare il dualismo tra “limiti sociali”, che sarebbero interni allo sviluppo capitalistico, e “limiti ecologici” che sarebbero esterni: In una prospettiva ecologica globale ... tutti i limiti si sono storicamente costituiti attraverso le relazioni tra la natura extra-umana e quella umana. Il problema non è la “separazione” della natura degli uomini dalla natura extra-umana, ma piuttosto come le due si compenetrano.
Queste configurazioni emergono attraverso progetti umani per rifare tutta la natura. Dire che questi progetti incontrano inevitabilmente dei limiti che emergono attraverso le contraddizioni interne dei progetti stessi è molto differente da invocare la “necessità naturale” e “limiti assoluti". Con ciò perde di senso sia la messa in guardia di un certo marxismo ortodosso a non sostituire la classe operaia con la natura come limite del capitalismo, sia la stessa sostituzione. [...]
6. E’ addirittura inutile ricordare che la storia dell’accumulazione originaria è tutta un’illustrazione del capitalismo come rapporto socio-ecologico. Le condizioni socio-biologiche indotte da tale rapporto, tanto in Inghilterra quanto nell’Impero Britannico erano il risvolto di una grande alleanza funzionale bidirezionale tra la tecnologia delle macchine a vapore e l’energia fossile che le muoveva, da una parte, e il grande incremento dell’estensione dell’Impero e della produttività, dall’altra. Tale alleanza era il risultato degli sforzi per uscire dalla situazione di difficoltà riguardo la produzione di cibo a buon mercato e lo sfruttamento dell’energia irradiata dal Sole.
Ecco quindi che lo sviluppo del capitalismo termoindustriale occidentale si caratterizza come un passaggio da una situazione di sottoproduzione (di cibo, di materie prime, di energia) a una situazione di «surplus ecologico radicalmente aumentato (cibo, lavoro e input a buon mercato)» (J. Moore). Per alcuni studiosi il ritorno a una stagione di sottoproduzione è nell’ordine delle cose possibili. Escluderlo è un errore tipico del marxismo economicista che replica l’indifferenza capitalistica del valore rispetto alle distinzioni naturali (Marx), al punto che con la finanziarizzazione il capitalismo pensa di poter addirittura essere indifferente all’esistenza di ricchezza materiale. Ma dato che ciò è un’utopia il valore deve prima o poi ripiombare violentemente nella forma materiale della ricchezza, cioè la merce dotata di valore d’uso.
[…]
La contraddizione risiede nel fatto che per far alzare il profitto, il capitale circolante (le materie prime, l’energia e i salari) deve diminuire di valore in relazione al capitale fisso (gli impianti) (5). Si ha quindi una situazione dove il disequilibrio è intrinseco. Infatti, ceteris paribus, lo sviluppo delle produzioni di merci spinge verso l’alto il prezzo del capitale circolante. L’equilibrio è possibile solo con l’appropriazione di nuove porzioni di natura che in quel momento è esterna ai rapporti di produzione e riproduzione del dato centro capitalistico, che quindi chiameremo “natura relativamente non capitalizzata”, che deve essere complementata da nuovi mezzi di trasporto (ad esempio nuovi giacimenti petroliferi e nuove pipeline, delocalizzazioni produttive e adeguamento del trasporto delle merci).
L’equilibrio quindi impone la riorganizzazione continua delle configurazioni socio-fisiche territoriali oltre che dei processi di produzione e di circolazione. Ma questa continua riorganizzazione di crescente ampiezza quantitativa (riguardo ad esempio all’energia usata o all’estensione di un’area d’influenza) si è tradotta in un susseguirsi di salti qualitativi: il mercantilismo, il colonialismo del XIX secolo e il ben differente imperialismo dell’inizio del XX secolo.
E oggi?
La finanziarizzazione nasconde temporaneamente la contraddizione in oggetto, ma non l’elimina. Anzi, sovrapponendo la propria espansione geometrica all’espansione materiale, sollecita quest’ultima a forzare il tasso di crescita che normalmente è aritmetico. Per giunta ciò avviene in un periodo di profittabilità decrescente. Così è costretta ad associare ai processi di valorizzazione un numero crescente di altri Paesi col rischio (che si è rivelato concreto) di favorire la messa in discussione dello status quo del rapporto mondiale di aggiunzione del Potere, cosa che a sua volta approfondisce ulteriormente la crisi sistemica.
Detto in altri termini, la capacità dissipativa del sistema diminuisce, per mancanza progressiva di un “esterno”. Ne segue che il centro capitalistico è costretto a rivolgere i processi di appropriazione-espropriazione anche al proprio interno. La crisi del debito europeo è un risultato di queste dinamiche, oltre che di un’edizione moderna della lotta tra capitalismo finanziario anglosassone e capitalismo materiale tedesco (quantunque ibridato con la finanziarizzazione) che rispecchia non solo interessi nazionali differenti, ma esigenze differenti.
La lotta di classe dall’alto che accompagna questa introversione è un esempio drammatico di quello che Arundhati Roy ha brillantemente definito “autocolonialismo”. Un autocolonialismo sociale. Una nuova “accumulazione originaria” che però è dubbio che possa dare avvio a una nuova fase espansiva apprezzabile, per via degli effetti cumulativi delle contraddizioni capitalistiche. Insomma, abbiamo di fronte un capitalismo nelle vesti di Conte Ugolino, perché più che ’l dolor (la spirale deflazionistica, la svalorizzazione e il “macello” di capitali) può il digiuno (cioè i morsi continui della fame di valorizzazione). Questa spinta all’espansione materiale, formidabile ma incoerente, generata dalla finanziarizzazione, fa riapparire le contraddizioni tra capitale circolante e capitale fisso che intrecciandosi con quelle tra capitale costante e capitale variabile determinano la caduta di fase del saggio di profitto. [...]
7. Il fenomeno delle delocalizzazioni, così come la storia dei “salti” del capitalismo, viene così giustificata da Moore:
Così come il capitale trae beneficio dall’impiegare lavoratori che risiedono in nuclei semiproletari, dove una parte decisiva del reddito viene dal di fuori del rapporto salariale, così il capitale preferisce mobilitare natura extra-umana capace di autoriprodursi in modo relativamente autonomo dal circuito del capitale. Un grande surplus ecologico risulta ogni qual volta un ammontare relativamente modesto di capitale mette in moto una gran massa di valori d’uso. [...]
Il proletariato urbanizzato è natura ormai capitalizzata al contrario del semi-proletariato. La stessa creazione dell’esercito industriale di riserva è creazione in una zona interna a un centro capitalistico di natura di cui appropriarsi. Così come l’utilizzo del proletariato di nazioni con un minor grado di sviluppo capitalistico.
Non bisogna ragionare in termini di rapporto energia prodotta/energia investita nella sua produzione, perché così non si riesce a intendere la categoria di “oikeios” e a catturare il fatto che «“Natura” è una categoria storicamente variante» . Invece occorre ragionare in termini di energia prodotta/capitale investito. Ovviamente le due cose sono correlate, ma possono essere sostituite l’una all’altra solo se ci si immagina un quadro statico in cui non sia più possibile un’ulteriore fase di appropriazione della natura, ormai globalizzata. Se invece si ragiona in un quadro dinamico, il rapporto interno/esterno riappare in tutta la sua concreta contraddittorietà materiale e sociale.
Il rapporto interno/esterno, non deve essere interpretato in senso assoluto - come sembra fare Moore - ma, come suggerisce il nostro concetto di “natura relativamente non capitalizzata”, in relazione ai differenziali sistemici di sviluppo (economici, finanziari, politici, militari, fisici) che delineano la gerarchia ramificata di Stati che caratterizza un dato ciclo sistemico e che entrando in crisi fanno entrare in crisi il sistema tutto. I costi base di riproduzione diminuiscono in un centro quando sono a carico di una periferia relativa a quel centro.
Giocando su questi differenziali, un segmento di capitale può ad esempio contrastare la caduta di fase del saggio di profitto perché cibo, energia, e input a buon mercato aumentano la produttività del lavoro senza richiedere un aumento della composizione organica del capitale. Ciò spiega perché si è insistito, con la globalizzazione, ad associare ai processi di accumulazione i Paesi periferici. I bassi salari degli esportatori asiatici non solo hanno contribuito a creare un surplus poi reinvestito nel debito pubblico americano, ma hanno anche contribuito a frenare la caduta di fase del saggio di profitto nei Paesi del centro. La “composizione capitalizzata della natura globale”
va dunque storicizzata, non meno della natura.
va dunque storicizzata, non meno della natura.
Questa storicizzazione riconduce il susseguirsi dei cicli sistemici di espansione capitalistici alla loro base materiale e la logica del capitale riacquista pienamente il suo essere un’astrazione determinata e non una costruzione concettuale.
8. Sappiamo che la logica del capitale risiede nell’intreccio tra il rapporto di aggiunzione del Valore e quello del Potere. L’analisi precedente mostra perché solo questo intreccio permette di immergere la produzione e la circolazione nella loro materialità: produzione di valori d’uso e circolazione fisica delle merci. E’ solo questa immersione nella materia che permette di capire l’enfasi di Giovanni Arrighi sulle rivoluzioni sociotecnico-organizzative che riconfigurano le dialettiche interno/esterno e inclusione/esclusione, cioè la geografia fisica e politica mondiale e, infine, il rapporto simbiotico
tra capitalismo e imperialismo (6):
tra capitalismo e imperialismo (6):
[L’oppio] fu l’unico mezzo commerciale a disposizione della Gran Bretagna nella sua lotta per estromettere la Cina dai vertici di comando dell’economia-mondo dell’Oriente asiatico. In questa lotta l’oppio non fu un “incidente della storia” più di quanto non lo fossero il ferro, il carbone, le ferrovie e le navi a vapore per il vittorioso tentativo britannico di egemonizzare il mondo occidentale (Arrighi).
Seguendo lo stesso ordine d’idee Moore sottolinea che senza i progetti imperiali che rivoluzionarono lo spazio eco-mondiale queste rivoluzioni tecnologiche non sarebbero state epocali: «Se il dinamismo tecnologico da solo fosse stato decisivo, verosimilmente la Germania avrebbe vinto sia la Gran Bretagna sia gli USA alla fine del 19° secolo. Invece la geografia continentale americana con le sue imprese integrate verticalmente e la supremazia commerciale e finanziaria britannica si combinarono e fecero diventare la Germania un semplice intruso» (Moore).
Però Moore stranamente prende in considerazione solo lo sviluppo degli aspetti concernenti la circolazione fisica delle merci (le ferrovie globali e la rivoluzione delle navi a vapore della seconda metà del 19° secolo) e non accenna all’altro fattore decisivo che servirà proprio a saldare queste innovazioni all’imperialismo, ovvero lo sviluppo della comunicazione delle informazioni, fattore di moltiplicazione del capitalismo finanziario: I cavi telegrafici sottomarini dal 1860 in poi stabilirono la connessione dei mercati intercontinentali. Permisero il commercio e la formazione dei prezzi su base giornaliera su migliaia di miglia, un’innovazione ben maggiore che non l’avvento del commercio elettronico oggi. Chicago e Londra, Melbourne e Manchester erano collegate quasi in tempo reale. Anche i mercati azionari vennero più strettamente connessi e l’attività creditizia internazionale su larga scala - sia di portafoglio sia investimenti diretti - crebbe rapidamente durante quel periodo.
E’ necessario però sottolineare come l’appropriazione di spazio sia non solo alla base dei rapporti imperialistici tra Stati ma anche della costruzione dei singoli Stati. L’esempio più recente, che sarebbe stato decisivo nella storia del capitalismo termoindustriale,
è stato quello degli Stati Uniti:
è stato quello degli Stati Uniti:
[...] all’indomani della Guerra Civile il problema era ormai quello di trasformare l’impero in una nazione. E così avvenne, proteggendo le industrie interne, riorganizzando il sistema bancario, completando la colonizzazione fino al Pacifico, rinchiudendo le nazioni indiane nelle riserve, impiantando infrastrutture di trasporto (treno) e di comunicazione (telegrafo), richiamando manodopera libera dal resto del mondo. Così [...] proprio mentre le potenze emergenti in Europa e il Giappone andavano alla ricerca del loro “spazio vitale”, la potenza emergente americana aveva appena finito di formalizzare il suo in uno stato-nazione di dimensioni continentali, potenziato dalla rivoluzione industriale della seconda metà del XIX secolo, al riparo di una vantaggiosa posizione insulare (cosa che permetteva ridotti costi di protezione) e, in aggiunta, con accesso diretto ai due grandi oceani commerciali, Atlantico e Pacifico. (Pagliani)
Fu proprio la possibilità di appropriarsi di natura non capitalizzata all’interno stesso di uno stato nazione gigantesco che però aveva già internalizzato la logica capitalista, che permise l’ascesa degli Stati Uniti come potenza egemonica. Si noti che per quanto riguarda la dialettica appropriazione/capitalizzazione della forza-lavoro, assistiamo negli Usa a un fatto peculiare. Abbiamo visto che in generale il massimo beneficio si trae da una forza-lavoro che è semi-proletarizzata, ovverosia il cui reddito non dipende unicamente dal salario, che così può rimanere basso.
Negli Stati Uniti, il West faceva in modo che l’operaio fosse rispetto a ciò in una situazione ibrida del tutto particolare: la possibilità di emigrare verso Occidente in nuove terre gli permetteva di essere o un operaio urbanizzato spesso recalcitrante oppure un imprenditore di se stesso che si appropriava della natura non capitalizzata del West. Ciò, come sappiamo, spinse gli imprenditori statunitensi ad essere all’avanguardia nell’introduzione di macchine sostitutive e a riorganizzare incessantemente il proprio business per sfidare la concorrenza intra e inter nazionale. La disponibilità di natura non capitalizzata interveniva così ancora una volta, seppur indirettamente,
nei meccanismi che avrebbero favorito l’egemonismo statunitense.
nei meccanismi che avrebbero favorito l’egemonismo statunitense.
9. Per riassumere, lo sviluppo del capitalismo termoindustriale che abbiamo conosciuto ha avuto bisogno dell’esportazione, all’esterno dei centri metropolitani storici, degli effetti dell’entropia energetica. Fu la possibilità di questa esportazione che permise il “ricambio organico tra uomo e natura” finalizzato all’accumulazione infinita. Di questo processo di esportazione, l’appropriazione di natura relativamente non capitalizzata (ad esempio la continua acquisizione di materie prime ed energetiche) era parte integrante. Gli effetti materiali entropici (dovuti cioè all’entropia del ricambio organico uomo natura nei processi di accumulazione allargata e al consumo dei prodotti di tale ricambio, ovvero gli effetti dovuti sia alla sintesi della natura sia alla distruzione della sintesi) erano causati da un modo di produzione che possiamo definire a “cicli del potere negentropici”, cioè cicli di organizzazione, concentrazione, centralizzazione e polarizzazione delle ricchezze interrotti da conflitti che generavano un’alta “entropia sociale”, cioè il disordine delle crisi. Anche questi effetti dovevano essere il più possibile scaricati all’esterno del sistema.
Si avviò così un processo ricorsivo di sfruttamento socio-ambientale che vedeva questa dialettica interno/esterno replicata come centro/periferia e inclusione/esclusione, nelle relazioni internazionali e nelle relazioni di classe dei centri metropolitani e dei Paesi che venivano associati al sistema in posizione subordinata o che si associavano spontaneamente nel tentativo di emergere. Ed è stato proprio l’emergere infine di nuovi enormi centri in concorrenza con i ben più piccoli - ad esclusione degli Usa - centri capitalistici storici che ha fortemente ridimensionato la possibilità da parte di questi ultimi di scaricare all’esterno gli effetti entropici materiali e gli effetti delle distorsioni, interruzioni e riorganizzazioni dei cicli negentropici del potere.
Si è quindi oggi in presenza di una situazione in cui enormi potenze si fronteggiano proprio sul terreno dell’esportazione degli effetti negativi, con feroce concorrenza sulle materie prime, sulle “profondità strategiche”, sui mercati di merci e di capitali. Le potenze capitalistiche storiche rivendicano “stili di vita non negoziabili”, ovverosia pretendono di mantenere ad oltranza sistemi sociali dissipativi non più sostenibili proprio perché è diminuita la loro “capacità dissipativa”. Le potenze emergenti concorrono con esse per il raggiungimento di più alti standard di vita tramite l’aumento della propria “capacità dissipativa” garante di una crescita interna organizzata.
Ciò porta a un giro vizioso di immensa pericolosità. A causa della logica conflittuale capitalistica di sviluppo infinito, questo stesso sviluppo diventa la base su cui ogni contendente cerca di ottenere le capacità per contrastare le pretese degli altri e le limitazioni imposte dagli altri. Lo sviluppo infinito, cioè, è sia il fine dei conflitti sia il mezzo per la loro conduzione.
Insomma, un Comma 22 socio-ecologico, politico-militare.
Insomma, un Comma 22 socio-ecologico, politico-militare.
Se ne può dedurre che con tutta la sua immaturità e con tutte le sue ingenuità, l’uscita nella direzione indicata dalle ipotesi di deaccumulazione (ovvero di decrescita cosciente basata sul rovesciamento dei rapporto sociali innaturali capitalistici) sembra ad oggi essere l’unica indicazione ragionevole. Ma a patto che si sia consapevoli che la deaccumulazione non è una questione di scelta di un modello, ma per l’appunto di rovesciamento dei rapporti sociali su cui si incancrenisce il problema da risolvere. Per essere più precisi, la deaccumulazione è una scelta relativa alla società umana se e solo se è in rapporto alla determinazione di nuovi rapporti sociali, verticali (di classe) e orizzontali (di distribuzione delle possibilità di decisione a livello globale).
* Per motivi di spazio sono stato costretto a ridurre questo bel capitolo di Pagliani che invito a leggere in originale qui.
1) Jason W. Moore “Ecology,capital, and the nature of our times”
2) Anche nelle “catastrofi naturali”. A noi Italiani basta ricordare la tragedia del Vajont, perché questo ci appaia subito chiaro. Ma anche il disastroso maremoto del dicembre 2004 che si scatenò contro una fascia costiera alterata dalla ricerca del profitto: dagli alberghi costruiti sulle spiagge, ovvero laddove l’uomo tradizionalmente si guardava bene dal costruire, ai chilometri di foreste di mangrovie - tradizionali barriere alle onde di marea - distrutti per far posto ad allevamenti intensivi di gamberetti, a raffinerie e altro. Fin troppo evidente la controprova della tragedia di Fukushima del 2011.
3) Il concetto di “metabolic rift” (frattura ecologica) gioca un ruolo chiave nel marxismo ecologico. E’ stato introdotto da John Bellamy Foster nel suo classico “Marx’s Theory of Metabolic Rift: Classical Foundations for Environmental Sociology” e amplia una fondamentale intuizione contenuta nel Libro I del Capitale riguardo la frattura tra natura e società capitalistica causata dall’asimmetria energetica tra città e campagna: «Con la preponderanza sempre crescente della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula in grandi centri, essa accumula da un lato la forza motrice della società, dall’altro turba il ricambio organico fra uomo e terra, ossia il ritorno alla terra degli elementi costitutivi della terra consumati dall’uomo sotto forma di mezzi alimentari e di vestiario, turba dunque l’eterna condizione naturale di una durevole fertilità del suolo. Così distrugge insieme la salute fisica degli operai urbani e la vita intellettuale dell’operaio rurale. [...] Come nell’industria urbana, così nell’agricoltura moderna, l’aumento della forza produttiva e la maggior quantità di lavoro resa liquida vengono pagate con la devastazione e l’ammorbamento della stessa forza-lavoro. E ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso della rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. Quanto più un paese, per esempio gli Stati Uniti dell’America del Nord, parte dalla grande industria come sfondo del proprio sviluppo, tanto più rapido è questo processo di distruzione. La produzione capitalistica sviluppa la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale solo minando al contempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio» (Marx, 1970a, vol. 2, pp. 218-219, sott. mie). Non solo: l’appropriazione di natura “esterna” è un processo costitutivo del capitalismo in quanto fornisce un «contributo occulto al risparmio energetico [del Paese dominante] grazie alle importazioni ottenute con il ricorso alla coercizione» (Pomeranz).
4) Quelli fisici, ad esempio, tramite innovazioni tecnico-scientifiche; quelli geopolitici con guerre dirette o indirette di carattere diplomatico, commerciale, valutario o militare; quelli culturali con l’occupazione di altre culture, ad esempio con l’attuale penetrazione capillare della lingua Inglese; quelli biologici con l’inurbamento in condizioni spaventose, le epidemie, le migrazioni, le carestie ed altri fenomeni infernali; infine quelli politici con una sottomissione della democrazia e delle istituzioni comunitarie all’assolutismo di alcuni prescelti funzionari del capitale in lotta tra loro. Ognuno vedrà in questo elenco la storia degli ultimi decenni.
5) Come il capitale fisso, il capitale circolante, eccetto i salari, fa parte del capitale costante. Marx nella sezione X delle Teorie sul Plusvalore e nel Libro II del Capitale denuncia il fatto che Ricardo sulla scorta di Smith fa confusione tra la coppia capitale fisso/capitale circolante e quella capitale costante/capitale variabile. L’origine di questa confusione deriva dal fatto che «la contrapposizione non è attinta dal processo di valorizzazione - capitale costante e capitale variabile - ma dal processo di circolazione».(Marx)
6) Data l’intrinseca necessità di appropriazione da parte dei centri capitalistici di ciò che è esterno relativamente alla loro collocazione geopolitico-economica, si comprende perché per Lenin l’imperialismo non fosse una politica degli Stati, bensì una sovrastruttura del capitalismo: la sua sovrastruttura estrema. L’uso del termine “sovrastruttura” è però sconsigliato dalla nostra
analisi del rapporto capitalismo/natura e soprattutto della dialettica interno/esterno che descrive l’imperialismo (in una delle sue possibili forme) come precondizione allo sviluppo del capitalismo e come consustanziale al capitalismo termoindustriale.
Nessun commento:
Posta un commento