uno dei due è l'altro

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domenica 15 novembre 2015

Tecnologia e limiti terrestri

Da  Sulla soglia del mondo -
      L’altrove dell’Occidente di Iain Chambers (2003) * 



Nell’odierno distacco metropolitano del mondo del lavoro dal senso del luogo, la vita civica si svincola sempre più dalla presenza immediata e dalle pressioni della produzione organizzata, e il lavoro viene ristrutturato in altri corpi (solitamente femminili, non di razza bianca e non del “Primo” mondo) e poi disperso spazialmente nella specificità frammentata del servizio metropolitano e delle industrie del piacere, oppure trasferito in luoghi remoti della produzione trans-nazionale, nelle piantagioni di caffè dell’America Latina, nelle fabbriche tessili dell’Indonesia, nelle catene di montaggio di microchip a Singapore. In quest’economia, Napoli e Irvine sono effettivamente più vicine di quanto potrebbe inizialmente sembrare a una prima occhiata. Entrambe esistono sullo stesso piano, forniscono soluzioni storicamente diverse in un’ontologia occidentale condivisa in cui l’architettura dell’accumulo sedentario, pianificato è
 sia costante che centrale.


Entrambe sono città per cui l’imperialismo europeo ieri e il neocolonialismo oggi sono stati centri focali dello sviluppo. La città contemporanea, che sia un insediamento storico sedimentato come Napoli o un modulo flessibile e orizzontale come Irvine, continua a schiudere e contemporaneamente a offuscare queste coordinate mentre vengono concentrate nel suo linguaggio, nei suoi edifici, nella sua prassi e nel suo stile quotidiani, nella sua sicura occupazione dello spazio.

Se per Le Corbusier le case sono macchine in cui vivere, Heidegger  ci ricorda che “la tecnica meccanica è il primo frutto dell’essenza della tecnica moderna, che fa tutt’uno con l’essenza della metafisica moderna”. Come schema, progetto e desiderio strumentale, l’architettura opera una mediazione tra la trasmissione dell’intenzione e la realizzazione e l’utilità, nonché la finalità culturale e l’iscrizione storica. In quanto tale, si ritrova intrappolata nella pulsione di ridurre la contingenza terrestre alla logica causale e controllabile di un linguaggio trasparente in cui il “politico” e il “sociale” vengono assorbiti pienamente in un regime mondano del razionalismo, che oggi si traduce sempre più nella neutralità, in apparenza leggera, dell’“informazione”.



Ci sono però dei limiti che circoscrivono le proiezioni di questi futuri, tanto quello della trascendenza promessa dalla tecnologia che la sospensione relativa dell’educazione civica urbana e del conseguente ottundimento della scelta politica. Mentre la California meridionale fa parte dei nostri futuri, non è necessariamente il futuro, perché, e qui riecheggiano Martin Heidegger e Richard Sennett, il luogo non è semplicemente il prodotto dell’elaborazione globale. Nel suo celebre saggio chiamato Costruire, Abitare, Pensare (1954), il filosofo tedesco scrive: gli spazi ricevono la loro essenza non dallo spazio, ma dai luoghi” (p. 103). Lo spazio è una produzione sociale, ci ricorda Henri Lefebvre, avrà sempre una storia: “Nessuno spazio scompare in fase di crescita e di sviluppo: il mondiale non abolisce il locale” 

Il luogo è sempre il sito di appropriazione culturale e trasformazione storica, il sito di una maniera e di un’economia specifiche di costruire, abitare e pensare. Per quanto sia l’oggetto di uno schema astratto, che si avvale della sintassi del capitalismo, della tecnologia, del governo, della pianificazione e dell’architettura, ciò che emerge non è mai semplicemente l’oggetto alienato di questi processi: ciò che emerge è un soggetto che introduce l’agonismo nell’agorà, costruendo un luogo particolare fuori da questo spazio, confutando la regolata trasparenza del piano per mezzo dell’inattesa opacità dell’evento insubordinato (Sennett, 1995).

Ciò significa insistere sulla disposizione profondamente eteronomica della modernità, di ciò che rimane represso nelle strozzature della coerenza razionalista e nazionalista. Significa disfare i legami di linearità e la teleologia di un tempo chiamato “progresso”. Significa gingillarsi mentre si palesa l’inquietante presenza di ciò che la modernità reprime, pur effettivamente dipendendo da essa: lo sfruttamento di chi è stato dimenticato, privato della libertà, dell’alieno e del negato. Questi ultimi sono condannati a sobbarcarsi il fardello della modernità in nome del progresso, del sottosviluppo, dell’arretratezza, dell’illegalità e dell’inevitabile attivazione dei paradigmi della privazione economica, del pregiudizio sessuale, della discriminazione etnica e del razzismo che tendono a imporsi in uno scenario di questo tipo.

Iscrivere direttamente queste discontinuità nel racconto contemporaneo del tempo, nello stato patrimoniale della modernità, investe altresì la tematica dell’architettura. L’architettura, nella maniera in cui è stata istituzionalizzata, praticata e insegnata, incarna la scommessa razionalista (sia in ambito empirico che idealista) che la conoscenza sia rappresentazione, che la conoscenza riguardi la capacità di vedere per rappresentare il mondo in una logica e in una struttura misurabili e immediatamente accessibili.



 L’architetto modello è Iddio onnisciente che tutto vede e tutto comprende, come prescrisse Isaac Newton e dipinse William Blake. Alla palese configurazione dell’architettura nelle economie emergenti dell’urbanesimo, del colonialismo e del capitalismo occorre pertanto aggiungere la sua appartenenza alle modalità egemoni della conoscenza e del potere. In questa formazione moderna, occidentale, l’architettura è sorella dell’antropologia, dell’anatomia e dell’arte abietta, ossia
“l’arte del dissotterratore dei cadaveri”  (1).

Queste relazioni foucaltiane, legate alle possibilità panottiche di disciplinare, se non anche di “disegnare e ripartire” il corpo della città, il corpo del cittadino, tentano di ridurre tutti i movimenti e le rotture potenziali alla cornice classificatoria e al tavolo dell’autopsia di una “natura morta”. Tuttavia il corpo, in quanto carne, sangue e ossa, in quanto storia e fecondità individuali, è il “dire”, come ribadisce Emmanuel Lévinas, che precede e va al di là della coscienza, del sistema, della struttura e della rappresentazione.

Nell’incarnazione del soggetto è l’alterità radicale del corpo stesso, relativamente al desiderio e allo schema atemporale del pensiero, che rende quest’ultimo vulnerabile ai limiti e alla ricusazione, perché “mette perennemente in discussione la prerogativa della coscienza di ‘fornire un senso’”
(Handelman, 1991).

L’architettura moderna, occidentale, ha dato un contributo diretto alla diffusione di un’egemonia visiva che non solo nega altre forme non rappresentative della conoscenza, ma ottiene, anche nella sua trionfale razionalizzazione del punto di vista unilaterale e della prospettiva astratta, di far passare nel dimenticatoio ciò che il suo discorso prevede di spiegare e accogliere: corpi e vite diverse. L’occhio architettonico si concentra sulle tecniche e sulla tecnologia dell’inquadramento che rende lo spazio e il terreno una realtà vantaggiosa, configurandola nell’identità dell’inquadratore, del soggetto. Lo sguardo apparentemente obiettivo viene restituito e trasformato nel punto di vista interno, soggettivo. Ancora una volta, diviene possibile afferrare l’apparentemente paradossale affermazione che la tecnologia è l’umanesimo.

La presunta antitesi tra questi due termini, che struttura in profondità tanta parte del pensiero moderno relativo alla tecnologia, prevede effettivamente una collaborazione tra due corpi concettuali in apparenza contrapposti e separati, catturati in un balletto i cui passi espongono le asserzioni universali del pensiero occidentale. Quando si tratta un punto di vista come ugualmente valido in qualunque posizione, di modo che ogni cosa dia il medesimo risultato, e venga meno il disturbo dell’alterità, allora la coscienza soggettiva passa direttamente nell’oggettività “neutrale” 
della forma calcolata.

Non ci vuole una grande immaginazione per mettere in relazione questi segni relativi al potere dell’aspetto, nonché il suo ruolo di custode della conoscenza, con il potere del piano e del punto di vista architettonico. Lo sguardo architettonico è altresì lo sguardo antropologico: costruire, classificare e definire lo spazio per gli altri; spalleggiato ulteriormente nella pragmatica delle culture anglosassoni dal pregiudizio che il linguaggio stesso sia cristallino, un semplice strumento per mezzo del quale la ragione riflette la realtà nella strumentalità neutrale del mezzo. Come l’occhio nudo, le lenti della macchina fotografica o la simulazione al computer, questi esempi di potere visivo traducono la verità direttamente in regimi di rappresentazione, da cui deriva la presunta vicinanza dell’osservatore a Dio, dell’architetto secolare al progettista divino.

 Ciò che non riesce a rientrare nel campo ottico, le sue procedure di classificazione e la sua logica della rappresentazione, non riesce nemmeno a divenire conoscenza. Qui lo spazio continua a essere concepito come realtà antropomorfica i cui limiti (l’orizzonte, il limite del campo visivo, l’oscurità) vengono riconosciuti unicamente per essere resi insignificanti relativamente a ciò che rientra nel campo di una visione ingrandita.

La relativa stabilità di questa cornice e dell’inquadramento o rappresentazione del soggetto (“l’immagine del mondo”, come dice Heidegger, che fa sì che l’occhìo sia sempre al centro della visione e del mondo, come stabilito per la prima volta con la modernità) consente di rigettare un punto di fuga o il vuoto che, alla fine, farebbe slittare e sopraffarebbe la soggettività. Come afferma Victor Burgin (1990): il punto di fuga non è parte integrante dello spazio della rappresentazione; posizionato sull’orizzonte, viene continuamente spinto in avanti di pari passo con l’espansione dei limiti del soggetto.

Il linguaggio della trasparenza e l’egemonia oculare qui si fondono in una relazione di soggetto-oggetto, in una concezione cumulativa del significato e della verità che riafferma eternamente il soggetto. Si tratta di una concezione che valorizza lungo un movimento unilaterale: dall’occhìo verso il mondo, di cui ci si appropria in quanto oggetto esterno.


Ora vorrei affiancare a questa generalizzazione epocale e geopolitica un’affermazione più precisa che riguarda direttamente il campo dell’architettura. Si tratta di una citazione da Urbanistica (pubblicato per la prima volta nel 1925), di Le Corbusier (1929), che recita: Combattiamo la trascuratezza, il disordine, l’abbandono, la negligenza dalle fatali conseguenze; aspiriamo all’ordine e lo raggiungiamo con il richiamo al nostro principio fondamentale: la geometria. “La geometria è il nostro principio fondamentale”, ci dice l’architetto francese proprio in apertura del suo libro. Ma al di là della frustrazione costante della geometria a opera delle coordinate storico-politiche, per non citare le pressioni dirette del mercato e della commercializzazione spesso scoordinata degli immobili, c’è una tensione maggiore dove i progetti rimangono permanentemente intrappolati nel passaggio tra costruzione e abitazione, tra la risposta funzionale all’abitazione umana e la proiezione immaginaria della stessa. Questo perché il potere dello sguardo si accompagna altresì a un’intrinseca incapacità:
l’incapacità di ascoltare, udire e rispondere.

L’occhio osserva una forma di sapere che né attende né accetta una risposta. Il piano progettato e contemplato dalle tecnologie dell’appropriazione oculare e dalla loro gestione della conoscenza, del potere, può essere lacerato, perforato o semplicemente superato da ulteriori regimi del senso individuale e collettivo che, inaspettatamente, confutano le prospettive amministrative.

L’esito della battaglia per avere un terreno comune di significato, o un quadro condiviso di senso, è insolitamente inevitabile; la sua politica penetra fin proprio nel cuore della materia a portata di mano, nel cuore stesso del nostro essere nella città, nella vita moderna. Inoltre, è possibile che venga restituito lo sguardo per far sentire a disagio l’osservatore, o per rendere tendenziosa la sua verità.



L’osservatore viene osservato. Registrare la possibilità di una simile reciprocità significa introdurre una distinzione dirompente tra l’oggettività soggettiva di una visione che abbraccia tutto e un occhìo che reagisce, che incontra resistenza e opacità, disturbo e offuscamento, un riflesso fosco nella retina. Questo opera un sabotaggio della distanza critica tra il soggetto che tutto vede e l’oggetto inerte, la distanza che permette il possesso, con un’interruzione che rimane insuperabile, una separazione instaurata e mantenuta dalla finitezza della mortalità, dai limiti della posizione, dai
fastidi dell’inconscio e dalle circostanze della differenza: voci diverse, corpi diversi, 
storie diverse.

È questo passaggio non rappresentabile che forma la materialità che Platone chiama chora, che Derrida e altri considerano il luogo eterno e infinito della traduzione, e che Elizabeth Grosz (1995) significativamente identifica come lo spazio del femminile. Proprio qui lo schema avviluppante dell’architettura incontra la presenza inquietante del non rappresentato. È qui che la purezza del progetto viene frantumata dall’apertura ai mutevoli linguaggi del luogo.

Pertanto, l’archeologia della moderna architettura non  svela semplicemente il suo contratto con una particolare épisteme, bensì stabilisce anche, e più appropriatamente,  limiti storici e  soglie culturali. Abitare nei limiti tra l’architettura e ciò che va al di là di essa, nell’eccesso, nell’integrazione, che rifiuta la sua logica o la contravviene, significa anche incontrare le altre architetture, o controarchitetture, che ne disturbano le prescrizioni e scelgono di vivere progetti, edifici, città, secondo pratiche ulteriori, impreviste.






Sull’orlo della costruzione

A queste necessità si deve aggiungere l’irrefrenabile costanza di un interrogativo di cui l’architettura pare sempre immemore. Non troppo tempo fa, in una Lettera a Peter Eisenman, Jacques Derrida (1994) ha elencato una serie di relazioni che, in stile heideggeriano, espongono l’architettura alla provocazione del suo inquadramento terrestre, a ciò che va al di là del suo discorso e lo avviluppa: l’architettura e la povertà, l’architettura e la condizione dei senza tetto, l’architettura e le rovine, e questo ci riporta al punto di partenza dell’interrogativo: la questione della terra e la provocazione fondamentale sostenuta dal nostro abitare.

Le pietre, l’acciaio, il cemento e il vetro che in apparenza forniscono la conclusione di un discorso, di un progetto, di un piano, di un edificio, di una città, sono necessari, ma non sufficienti, punti materiali di partenza nei processi che trasformano lo spazio in un luogo, perché ogni spazio incarna pratiche storiche e culturali, riceve il sigillo individuale e collettivo di corpi, storie, culture, ricordi e vite irreprimibili. L’architettura come “sintesi spaziale dell’eterogeneo” non è quindi solo la sintesi di forme e materiali, come propone Paul Ricoeur (1996): è anche sintesi di forze e relazioni sociali, storiche e culturali. In quanto testo non è soltanto una trama da leggere, è anche una storia che raccontiamo e in cui veniamo raccontati. In questo modo si conferiscono alle discipline e alle pratiche che concepiscono e progettano la città (l’architettura, l’urbanistica e l’amministrazione comunale, l’investimento e la speculazione finanziari, l’oligarchia del capitale globale e locale) una ricezione e un ascolto che consentono alle altre città che esistono all’interno della città di divenire visibili e udibili: gli edifici di classe, genere, sesso, etnia e razza che costituiscono e investono lo spazio urbano.

Tracciare la mappa della città seguendo questi assi significa integrare, e talvolta sovvertire, la concezione di un habitat inteso esclusivamente in termini di popolazione astratta, spazio civico generico, insieme di forza lavoro anonima o concentrazione commerciale. Comprendendo la città in quest’ottica si attua un radicale spostamento dell’enfasi dai protocolli prescrittivi del piano urbano, del progetto architettonico, dell’intenzione amministrativa e della strategia economica verso quelli iscrittivi: verso la città che parla, che si racconta nella diversità. Se a questo punto si presta attenzione a Lévinas, nel passaggio dall’interdizione del detto all’esposizione del dire, nell’oscillazione tra l’astrazione della legge e l’evento non previsto, esiste l’insistenza dell’etica, dove il prescrittivo viene reso responsabile. [...]

Il progetto architettonico, mentre cristallizza uno o più futuri, viene poi presentato alla città, per così dire, come un intero, non come una sostituzione o un rimpiazzo, come nell’urbanesimo utopico del modernismo, bensì come materiale da sottomettere alla vita e al potere consumante del contesto. I “tipi” apparentemente onnicomprensivi vengono pertanto frantumati dalla controforza del luogo (Vidler) (2). 
Le città, la vita urbana, l’architettura, come le nostre essenze sociali, di genere, etniche, nazionali e locali, per quanto possano essere costruite per decreto pedagogico e disciplinare, in ultima analisi dipendono da una performance o stile d’essere, dall’articolazione storica e da un’etica iterata nel nostro divenire. La verità del nostro essere è qui, nel fatto che ascoltiamo e rispondiamo a quel linguaggio. In quello spazio, per quanto eccessivamente determinato dall’assalto apparentemente irresistibile di capitale e controllo corporativo (che in questi anni si sostituisce sempre più alle politiche istituzionali), esiste un eccesso culturale e poetico che non si può ricondurre al razionalismo e alla logica calcolatrici di coloro che intendono sovrintendere
 al nostro futuro.

Questa integrazione interrompe e mette in discussione il desiderio politico della conclusione, della comprensione universale e l’asservimento razionalista del mondo. Questo desiderio si disperde nello spazio tra gli edifici, nel vuoto tra proclami misurati, nel silenzio che la geometria non riesce a codificare, nelle ombre che offuscano la trasparenza. Infine le energie si riversano per le strade e per
i territori dell’incertezza dove i corpi e le voci storici, muovendosi in uno stato mutevole, ora “arcaico” e ora “cyborg”, coniugano la tecnologia e l’essenza in un interrogativo comune. Qui la chiarezza accattivante e il potere dell’informazione sono traditi nel perenne transito e nella traduzione che accompagna un adattamento differenziato nel mondo. Qui c’è la possibilità di varcare i confini del calcolo per correre il rischio di pensare diversamente. Pensare a ciò che il calcolo non può rappresentare, ciò che i numeri e le linee reprimono, significa esporre il piano ai rischi incalcolabili che nasconde, nonché al terreno mobile, la terra, che immancabilmente trascura.

L’architettura, in quanto tentativo di configurare lo spazio, di trasformarlo in luogo, edificio, habitat, deve sempre fare i conti con l’instabilità, l’eruzione narrativa, dell’essenza storica quotidiana e di una finitezza costellata dalla contingenza terrestre. La cognizione di queste coordinate scaturisce forse nella prospettiva di un’architettura più transitoria o di un’“architettura debole”: un’architettura in grado di adeguare, o quantomeno registrare, l’intervallo tra piano e luogo. Non si vuole suggerire di costruire strutture meno sicure, bensì che la loro necessaria logica e razionalità vengano a essere riconosciute come linguaggi limitati invece che leggi universali.

Chiaramente, questo vorrebbe dire ridurre e ridisegnare il campo d’azione dell’architettura spostando l’attenzione alla tendenza di una razionalità omogenea e insistendo sulle storie eterogenee che la costruzione è destinata a ospitare. L’architetto smette di essere un progettista universale e assume i connotati di costruttore attento, che edifica l’abitazione umana, se ne prende cura e la nutre (3). Il piano, il progetto, l’edificio diviene una costruzione più leggera: meno monumentale, meno metafisica nelle sue aspirazioni, più modesta, aperta e disponibile nella sua risposta al luogo in cui è destinata ad acquisire vite, storie… ricordi, significati.

Un’architettura di questo tipo diventerebbe forse più vulnerabile a un senso dell’abitare ricevuto dall’eredità storica e dalle contingenze terrestri che noi chiamiamo mondo (Heidegger). In questo modo, l’architettura si metterebbe anche in comunicazione con le dimore più semplici che rappresentano l’abitazione e il rifugio per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale che non dispone né dell’economia, né della stabilità quotidiana per permettersi la qualità architettonica degli edifici occidentali. Questo potrebbe proporre un ponte tra le opzioni individuali circoscritte dalla responsabilità teorica (e dai costi) di edifici domestici come quelli proposti, per esempio, dall’architetto australiano contemporaneo Glenn Murcutt, e le soluzioni standardizzate che prestano attenzione alla storia del luogo.

Tra le opere di Murcutt si distingue la famosa casa Marika-Alderton (1991-1994) nella comunità di Yirrkala nei Territori Settentrionali: una reinterpretazione dello stile aborigeno del rifugio proposta come alternativa al bungalow governativo standard .

Qui, per quanto si stia sempre parlando di una soluzione su misura, non collettiva, non si esclude la possibilità che quest’ultima venga a essere eticamente ed effettivamente influenzata dalla prima. A questo punto, sarebbe possibile chiedersi se gli architetti siano le vittime o gli esecutori del capitale globale e dei suoi teatri locali del potere. I commenti di cui sopra sulla locuzione storica e sui limiti della volontà architettonica occidentale (ora trasposta negli skyline di tutto il mondo, da Siviglia a Sydney a Shanghai) vogliono proporre per gli architetti il ruolo di mediatori, che esercitano il loro potere di riflettere e di deflettere le relazioni strutturali in cui loro, 
le loro pratiche e noi veniamo catturati.


 L’architettura, come ambito dell’opera critica, non è soltanto il luogo in cui si visualizzano e progettano edifici e città, ma è anche il luogo dove diviene possibile ascoltare ciò che i protocolli della professione tendono a passare sotto silenzio o a reprimere nella sua economia politica di razionalizzazione dello spazio.
L’architettura si sviluppa necessariamente a partire da un punto di vista che, a prescindere dal grado di liberalità e pluralismo delle sue intenzioni, è destinato ad attrarre tutto ciò che incontra nella logica del suo piano. Non solo è unilaterale nella sua astrazione (come si traccia o progetta il contingente e il trasgressivo?), ma richiede altresì una chiusa arbitraria, un’omogeneizzazione della visione, se deve passare da un tavolo da disegno al luogo della costruzione, 
all’edificio abitato e all’edificazione dello spazio.

È vero che, nella città di tutti i giorni, nella mobilità della vita quotidiana, le cose non vanno tanto lisce: i detriti lasciati dalle altre storie e dalle altre maniere di abitare lo spazio urbano possono lasciare il loro segno sui muri, i loro ripari di cartone nel parco, le loro ombre distese sui marciapiedi, o concentrare altrove la differenza – dal linguaggio e dalla religione alla musica, alla cucina e all’abbigliamento – 
in particolari enclavi del reticolo urbano.

 In che modo risponde l’architettura? E soprattutto, può l’architettura rispondere affatto? Oppure tra coloro che non rientrano nel piano, la cui presenza ne infastidisce e sfida la logica, è già innestata un’altra architettura? Certamente emerge di frequente una maniera di abitare che intorbida la logica imposta, che riscrive i termini dell’ospitalità secondo un altro design culturale.



*Il libro di Iain Chambers "Sulla Soglia del Mondo - L'altrove dell'Occidente" pubblicato da Meltempi editore nel 2003 è disponibile in formato pdf qui.

Note
1 Non che la volontà di rappresentare sia automaticamente compresa o abbia effetti omogenei. L’azione dell’architettura (chi viene rappresentato, che cosa viene rappresentato) chiaramente costituisce anch’essa il suolo contestato su cui opera l’architettura. Queste argomentazioni sono tratte da Gülsüm Bantoglu e dal suo intervento alla conferenza Global/Local: Postcolonial Questions, University of Western Sydney, 24 giugno1997.
2 Qui Vidler descrive l’architettura sperimentale di Wiel Arets.
3 “L’uomo non è il padrone dell’ente. L’uomo è il pastore dell’essere” (Heidegger)




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